venerdì 28 dicembre 2012

giovedì 27 dicembre 2012

parte 17.0 fine primo atto



Nonostante non volessi più parlarle, ne sentirla, avvertivo il bisogno di vederla, magari in lontananza. Mi appostavo quasi ogni sera dietro il club, prima che lei arrivasse e dopo, prima che se ne andasse: volevo solamente sapere che stesse bene.
Almeno questa era scusa che usavo per me stesso.
Una sera dopo non averla vista entrare al Venezuelos e pensando che probabilmente era tra le braccia di qualche bancario di merda, m’incamminai verso un percorso che prometteva bar ed alcool, persone e bicchieri: calici pieni confacenti a colmare vite vuote.
Ero appena uscito da un bar nel centro del ghetto della città e mentre mi avviavo verso una taverna lì nelle vicinanze, mi ritrovai con la faccia a terra senza aver avuto nemmeno il tempo di capire che stavo cadendo, non ero inciampato di sicuro, quindi qualcuno mi aveva spinto giù, appena balenai questa idea, sentii una fitta secca sul fegato. Capii che si trattò di un calcio, solamente quando il secondo mi colpi la mascella.
Fanculo, due colpi ed ero già K.O..
Chi me li aveva appena tirati sapeva il fatto suo. 
Un tizio piccolo ma ben piazzato, che ricordai di averlo già visto al club, alzandomi testa per i capelli mi intimò di farmi i cazzi miei e di stare alla larga del Venezuelos e di chi ci lavorava. Non riuscii a rispondere, il dolore che provavo era troppo forte.
“Hai capito quello che ti ho detto femminuccia?”
Avrei voluto dirgli che forse era meglio che si guardasse sempre e bene le spalle e che era stato un vigliacco a prendermi alla schiena e che se riuscivo ad alzarmi avrei lucidato i miei stivali prendendolo a calci in culo… e che lo avrei ucciso... ma prima che ci riuscissi, un altro calcio mi colpi allo stomaco.

Fine del primo atto.

giovedì 20 dicembre 2012

parte 16.1



I vestiti lasciarono spazio alle nostre carnagioni, ambedue ambrate: la sua tanto uniforme quanto innaturale e la mia, che teneva vaghi ricordi del sole tropicale.
Eravamo follemente presi una dall’altro. Le nostre essenze si mischiarono divenendo un corpo ed un anima sola. Passione e dedizione ci condussero in un universo parallelo, in un posto dove non esiste il male.
E ben che meno i magnacci.
Pensai che avrei comprato casa volentieri in quel posto. Indifferentemente quanto costasse e se per pagarlo avrei dovuto vendere l’anima, al diavolo. O a chi per lui: ne valeva assolutamente la pena.

Sarà che il tempo è fottutamente relativo,  ma come le cose cambiano nel giro di pochi attimi non lo capirò mai: lei accese una sigaretta, non lo faceva mai, almeno non in mia presenza, sapeva che odiavo le sigarette, mi guardò con occhi distaccati e freddamente disse: “Gio’, prendiamoci un po’ di tempo.”  
Anche l’altro universo mi cadde addosso. 
Non esistono posti in cui al male sia negato l’accesso.
Non dissi nulla, mi misi i vestiti tra le nuvole grigie delle sue stramaledette sigarette sottili (e piene di merda). Uscendo, appoggiai sulla mensola dell’ingresso 50 euro, asserendo che erano più che ottimi ed abbondati per le sue scarse e scadenti prestazioni. Non volevo darle diritto di replica, non la guardai nemmeno, chiusi la porta con finta cortesia. Scesi per delle scale grigie, di vani grigi, di un condominio grigio.
Non mi ero mai accorto di quanto il grigio fosse vuoto e grigio era tutto quello che mi circondava.

Viali senza alberi e gradinate senza scalini,
albe senza luce e tramonti senza sole;
negozi pieni di cose vuote e commesse colorate dall'anima grigia.
Amari ricordi del dolce sorriso di una bocca di rosa mai stata mia.  


Per un bel po’ tutto quello che mi circondava diventò asettico. Ero in uno stato di anestesia che, in quel frangente di disperazione, serviva a creare alibi emozionali.

parte 15.2



Rimasi silenzioso. Continuavo a non capire cosa stesse succedendo.
“ Gio’ io ti amo, e questo è un sentimento che non mi posso permettere di avere.”
“ Ci sei andata a letto?”
“ Cambia qualcosa?”
“ Certo che cambia, mi è già difficile pensare che lo fai per lavoro… ora anche per divertimento proprio no!”
“ Non ci sono andata a letto e non ci ho fatto sesso, ci ho solo parlato, è uno carino sai… lavora in banca…”
“ Interessante teoria. E’ carino in quanto lavora in banca? C’entrano sempre i soldi per te, vero? Mi verrebbe da dire che per te con i soldi c’entra tutto!”
Presi un bel ceffone. Solitamente la verità fa male a chi la sente, ora anche a chi l’ha detta.
Mi guardò un attimo, non riuscivo a capire se mi odiava in quel momento o che.
Passarono alcuni minuti in silenzio, un po’ ci guardavamo, un po’ gli sguardi si perdevano oltre i muri verso orizzonti improbabili. Lei mi si avvicinò e con voce pacata e risoluta mi disse che mi avrebbe lasciato. Disse che l’avrebbe già dovuto fare.
Accusai il colpo, feci per andarmene, lei mi fermò prendendomi saldamente la mano, poi mi baciò.
E non fu un bacio e basta, continuò a farlo.  Nonostante una mia iniziale riluttanza, mi continuò a baciare, senza darmi diritto di decisione, senza darmi respiro. Comandava lei. Io non sapevo come ribellarmi, o forse sapevo ma sicuramente non volevo.
I baci sono l’essenza dell’amore. E sono sinceri in quanto privi di parole.
Le parole che sono spesso fuorvianti, a volte partono dalla pancia, altre dalla testa.I baci partono dal cuore. Gli abbracci dall’anima. E lei mi teneva stretto fra le sue braccia.
Ed io, bisognoso di cure come un ammalato terminale, la lasciavo fare.
Ero alla sua mercè.
Chi è alla mercè di chi.
Mi disse che era uno strazio solo pensare di lasciarmi andare.

parte 15.1



Carla tornò a casa, più o meno alla solita ora. Mi trovò sul divano.
“Ciao. Che fai sveglio?”
“ Ti aspettavo…”
“Mmm… vuoi subito la ricompensa?”
“ Carla, non prendermi per il culo.”
“ Che stai dicendo?”
“ Dico che stanotte le stavo per prendere e tu nemmeno c’eri”
“ No ti seguo… cosa stai blaterando… calmati.”
“ Sono calmo! O forse no. No…non lo sono. Ma questo non cambia. Non cambia il fatto che stanotte ero al Venezuelos  e la nera mi ha detto che non c’eri e di andarmene! Ed uno che lavora lì mi avrebbe voluto prendere a pugni …”
“ No Nou..”
“ Che hai detto?”
“ Ho detto No Nou, il nome di quella che tu chiami nera. Cazzo, lei ha un nome, non chiamarla nera!”
“ Cazzo lo dico io… tu al massimo li prendi…”
“ Vaffanculo Gio’ chi credi di essere? Sei qui a casa mia come ti permetti? In quel letto ci sei stato solo tu…Se mai la cosa ti riguardasse…”
Cercai di calmarmi.
“ Dov’eri? Dimmi dov’eri per piacere.”
Ci furono alcuni attimi di silenzio. La domanda che feci con tono pacato necessitava di una risposta sincera.
“ Non ti appartengo Giovanni…”
Se mai il peso del mondo fosse misurabile e quantificabile, sono certo di averlo sentito tutto tutto addosso.
Lei continuò:
“Non ti devo giustificazioni perché non ti appartengo.”
Prese un fazzoletto di carta dalla borsetta e si asciugò una lacrima cristallina che scendeva dall’occhio sinistro.
“ Non posso appartenere a nessuno Giovanni, non posso appartenere a nessun altro, perché sono già di proprietà di qualcuno… appartengo a tre albanesi…”
Altre lacrime scesero dal suo viso.
“ Che stai cercando di dire? Che scuse stai trovando?”
“ Dico che non mi lasceranno andare. Mai.”
Fece una pausa.
“ Sono la loro gallina dalle uova d’oro. Non possono lasciarmi andare via, non possono lasciare che mi innamori di qualcuno…”
Un’altra pausa.
“ Quella è brutta gente, sarà meglio che tu mi stia lontano.”
“Non capisco cosa c’entri tutto ciò con il fatto che non so dov’eri questa notte.”
“ Ero con un altro uomo Gio’”
Il mondo nuovamente si fece sentire.

mercoledì 19 dicembre 2012

parte 14.4



Finita l’esibizione mi recai al bar, temevo che si fossero insospettiti se me ne andavo subito.
Ordinai non so nemmeno io cosa. Comunque era forte e la bevvi quasi tutto d’un fiato. Guardavo il palco, cercando di far finta di niente. Fu il turno di quella che la volta prima era una poliziotta “cattivona”. Oggi vestita in stile anni settanta, mi sembrava la caricatura dei cugini di campagna. Prese con se la stessa donna dell’altra volta. Strane le cose della vita pensai, non ero il solo che si fosse innamorato di una puttana.
Era il momento buono per andarsene senza farsi notare, le due signore al centro della scena attiravano l’attenzione di tutti, buttafuori compresi.
Uscendo dal locale, subito fuori in strada, un tipo basso e tarchiato mi dette una spinta che mi fece quasi cadere a terra. Al posto delle scuse trovai parole minacciose.
“Stai attento cretino d’un ubriacone. Cerca di andartene subito e di non tornare se non vuoi che ti faccio irriconoscibile anche da tua madre”
“ Me ne vado. Ok.”
“ Ancora… insisti… corri o ti prendo e ti appendo per le palle al macello… là è pieno di vacche… ci staresti bene, vero?”
Accolsi il suggerimento. E la sottigliezza del messaggio. Non era il momento adatto per verificare l’attendibilità delle sue provocazioni.
Feci alcuni giri a vuoto cercando di capire se mi seguisse qualcuno. Dopo essermi sincerato di essere da solo andai a casa. A casa di Carla. Volevo spiegazioni. Volevo e dovevo capire. Sapevo che alla fine volevo solo lei. Per la prima volta ebbi paura di perdere qualcosa a cui tenevo.

parte 14.3



Appena entrai al Venezuelos mi accorsi come di essere sorvegliato, un mormorio tra alcuni buttafuori avrei giurato che fossero riconducibili a me. Feci finta di niente, anche perché niente altro potevo fare. Mi sedetti su un divanetto in disparte ma non troppo. Dovevo comunque essere scelto da Carla. Dopo una breve esibizione di alcuni giocolieri tipici da moda circense prese posto al centro del locale l’esibizione di quella che già definii la venere nera. Oggi vestita da crocerossina. Il vestitino bianco, che lentamente stava togliendo, perfettamente contrastava la sua pelle nera. Lei mi si avvicinò, e nonostante un mio tentativo di diniego, mi prese con se. Pensai subito che così sarebbe stato quantomeno improbabile essere poi scelto anche da Carla. Mi strinse al suo seno parzialmente schiarito da un pizzo bianco, così facendo si avvicinò al mio orecchio.
“ Vattene subito.”
Rimasi di stucco per quelle parole inaspettate e senza un senso apparente. Poi conscio che già mi tenevano d’occhio cercai di far finta di niente. Stetti al gioco instaurato. L’aiutai  a togliere le sue candide vesti per lasciar posto alla sua pelle, che, nera come il peccato, si prendeva gioco e vincita da ciò che convenzionalmente appare come puro e immacolato: il bianco. Come il male contro il bene. O solamente i desideri reconditi che, in quel posto ai confini della civiltà, trionfano contro un ipocrita perbenismo.
“ Che ci fai qui? Carla non c’è.”
Un altro fulmine a ciel sereno. Mi chiesi quante cose ancora sapeva la venere nera.
“ Vattene!“ Ribadì lapidaria, come se non fosse certa che il suo messaggio mi fosse arrivato preciso.

parte 14.2



Uscito mi diressi nuovamente verso una meta sconosciuta non ancora stanco di scrutare sguardi e di capire, o perlomeno giocare a capire, l’essenza delle persone. Ad un certo punto un languore mi portò verso un buffet del centro. Dal quale usciva un odorino di quello che era il piatto tipico, cioè carne di maiale bollita con tanti aromi e tanto sale.
Il mio stomaco decise per me:  presi un piatto della specialità della casa con un contorno di crauti acidi e patate al tegame con cipolla e pancetta. Accompagnai il tutto con una birra tedesca da mezzo. L’orologio asseriva che mancava ancora parecchio tempo all’apertura del night e finita la cena ingannai il tempo leggendo un giornale.
Fui l’ultimo a pagare ed a andarmene dal buffet. Guardai nuovamente l’orologio nella speranza di un responso migliore, ma nuovamente sentenziò che era presto. Decisi che dovevo cambiarlo, non doveva funzionare. O era tardi o era presto, mai una volta che l’ora fosse giusta. Giusta per me.
Se non erro, un tale dai capelli scompigliati disse che il tempo è relativo.

parte 14.1



Quel pomeriggio Carla non tornò a casa. Si recò direttamente al Venezuelos. Una telefonata serafica mi avvisò di questa sua decisione:
“Ciao bello, sono io, scusami tanto, ma non rientro a casa, sto qui da una mia amica, ha bisogno di parlare, è parecchio giù. Poi vado diretta al night. Ci vediamo domani mattina, Ok?”
“Se ti dicessi di no, cambierebbe qualcosa?”
“Sì, cambierebbe, domani potrei farmi perdonare di… due cose… che dici?”
“ Allora dico che comandi tu, io obbedisco. Così come fece Garibaldi davanti al suo Re!”
“ Bene bel soldatino, a domani allora. Baci.”
“ Non so se riuscirò a resistere fino a domani…”
  Mmm, io dico di sì… ciao…”
Pensai che avevo anch’io bisogno di Carla. Sicuramente più della sua amica.
Decisi che sul tardi sarei andato direttamente al night. Non riuscivo ad aspettare, ero convinto che Carla mi avrebbe scelto nuovamente per la sua esposizione scenografica di un rapporto bondage. Mi preparai con calma e non avendo voglia di cucinare solo per me, decisi per un pasto frugale nel primo buco di locale che avesse in qualche modo attirato la mia attenzione. Scesi in centro: avevo tempo, molto. Girovagavo senza una meta precisa cercavo facce amiche. Guardavo vetrine e scrutavo persone. Entrai in un negozio di biancheria intima, con l’intento a comprare un completino  da donna. Il  motivo che mi fece entrare in un negozio invece che in un altro era una commessa che dalla vetrina vidi sorridente con tutti i clienti. Non so se a sorridere erano di più le sue labbra, il suo sguardo malizioso, o i suoi seni, che sotto una maglietta morbida, posata su una spalla solamente, lasciava  i suoi capezzoli poco più che maggiorenni liberi di essere, di parlare e di fare promesse. Mi feci mostrare svariati completino intimi, divertendomi a farmi consigliare uno invece che un altro descrivendo la fisicità della mia donna. Che per l’occasione era tale quale a lei.
Comprai uno che la commessa definì con scarsa fantasia, ma in modo inequivocabile, completino da letto. Pensai che un giorno, ritornando in quel negozio, avrei potuto farmi spiegare meglio cosa intendesse. Oggi no, avevo già le idee chiare sulle spiegazioni che necessitavo. E su chi me le doveva dare.

giovedì 13 dicembre 2012

istruzioni 3.0



All'interno del blog, come oramai tanti lettori sanno, c'è una storia, una storia di un amore pressoché impossibile, irto di passioni forse proprio per lo stesso motivo. La storia va letta in ordine progressivo numerico e, siccome potrebbe essere soggetta a revisione e/o aggiunte, per comodità ho usato un doppio sistema numerico, ovvero inizia con "parte 1.1" dove il primo 1 sta per capitolo ed il secondo 1 sta paragrafo. E così via: parte 1.2, parte 1.3, parte 2.1, 2.2, 2.3 etc.etc..

parte 13.2



La mattina seguente Carla mi svegliò per fare colazione. Non era mai accaduto e la cosa mi fece piacere.
“Ho voglia di fare colazione con te, stamane. Ti ricordo che oggi dopo il lavoro mi vedo con una mia amica. Ci vediamo stasera. Passo per casa prima del lavoro.”
“Bene, approfitterò per fare alcune cose arretrate.”
Mentre parlavamo Carla si vestiva. Notai, senza però farci particolarmente caso, che indossò dei abiti più belli di quelli solitamente usati per recarsi al Call Center. Lo fece davanti a me, pensai che era sexy non solo quando si toglieva i vestiti.
Intanto un fischio proveniente dalla moka decretò che il caffè era pronto. Ci sedemmo uno di fronte all’altro. Facemmo colazione guardandoci continuamente.
“Come sei bella ed elegante oggi.”
”Direi come sempre, non mi vedo addosso nulla di particolare.”
“Non è vero, oggi sei più carina del solito.”
“Non chiamarmi carina, non mi piace, mi sembra un modo educato per non dire bruttina.”
“Assolutamente non ero ciò che intendevo, ma non lo farò più. Tu sei molto di più di carina, sei bellissima.”
“Mi stai adulando?.”
“Assolutamente sì!”
Mi guardò ancora un attimo prima di uscire. Un bacio fugace ed una parola che, col senno di poi, poteva voler dire tante cose. “Scappo. Ciao”.
La vita è un continuo trascinamento in salita, verso una vetta indistinta che come un miraggio più strada fai, più lei si allontana. Inoltre crepacci in cui cadere, non mancano mai. E sono sempre celati in abiti ammalianti.

parte 13.1



Tornai a casa di Carla nel primo pomeriggio. Suonai il campanello ma non rispose. Entrai con le mie chiavi. La trovai a letto, sotto le coperte. Non dormiva. La cornice non era apparentemente più dove l’avevo lasciata. Carla si accorse che guardavo il comò con espressione di chi cerca con gli occhi qualcosa che non c’è. Mi capiva sempre al volo, fin dal primo giorno, dal primo momento. 
Così la capivo anch’io. 
Almeno credevo.
Fece cenno di avvicinarmi e appena fui ai piedi del letto mi mostrò che teneva stette quelle incorniciate parole a se, vicine al suo seno e vicine al suo cuore.
Disse semplicemente grazie.
“Ho fatto solamente il mio dovere.” risposi, cercando con dell’ironia di minimizzare la cosa. Mi sentivo imbarazzato, non avevo mai scritto parole d’amore. E non ero pronto a ricevere complimenti.
“ Sono parole bellissime, le porterò sempre con me, nel mio cuore, qualsiasi cosa possa succedere fra di noi”
Non feci caso alle ultime parole che lei disse. Non lo feci perché focalizzavo le prime, ovvero su quelle che promettevano un legame inscindibile fra un mio pensiero ed il suo cuore. 
Ciò mi riempiva di felicità. E di orgoglio.
L’orgoglio non è altro che un vizio che prima inganna le anime e poi le divora.
“Sei l’uomo più bello del mondo e la miglior cosa che mi potesse mai capitare. Sei il mio punto di equilibrio.”
“ No, sono solo un uomo fortunato perché ha vicino una stella. Ma non una qualsiasi: ho vicino la stella più bella.”
Le parole non sono immortali. La loro vita è più breve di quel che si voglia credere.

mercoledì 12 dicembre 2012

Mentre Dormi

Mentre dormi ti proteggo
e ti sfioro con le dita
ti respiro e ti trattengo
per averti per sempre
oltre il tempo di questo momento
arrivo in fondo ai tuoi occhi
quando mi abbracci e sorridi
se mi stringi forte fino a ricambiarmi l'anima




(Max Gazzè)

giovedì 6 dicembre 2012

in attesa

              ... le nostre giovani anime dimorano in corpi scolpiti dalle passioni che abbiamo vissuto. 
In attesa che i segni delle passioni future completino la mappa dell'essere...  (M.P.)

mercoledì 5 dicembre 2012

parte 12.2



La fiducia nella persona e la lieve ebbrezza mi portò a confidare a Pino la mia relazione con Carla. Era la prima persona che ne venne a conoscenza. I miei vecchi amici di scuola che mi portarono al Venezuelas non sapevano altro che di un mio incontrò nel privè del locale con una biondina da brivido. Credo che non sarebbero nemmeno capaci di riconoscerla fuori dalle vesti di Miss Downey. Né loro né altri. E questo mi rassicurava.
“Situazione complicata.” Disse alla conoscenza dei duplici lavori della mia donna.
“Già, ma se solo saprei spiegarti quello che c’è fra di noi…sai, oggi le ho scritto una poesia, non avrei mai creduto di essere capace di mettere assieme più di due parole, poi tutto d’un getto lo scritta, per certi versi ne sono fiero. Poi penso che sia solo merito suo. Io non ero altro che la mano scrivente. Lei, la musa.”
“Auguri, ma state attenti.” aggiunse stringato. Se aveva del disappunto non lo fece notare. Comportamento frutto probabilmente dell’istruzione militare che acquisì in Israele: non porre mai  domande.
D’altra parte Israele è un paese in guerra con metà mondo. Oltre che con se stessa.
Ignoravo ancora che nel giro di due giorni due persone diverse, che non si conoscevano, e nulla avevano in comune, ci mettessero in guardia sull’amore che provavamo e su un viaggio affettivo in bilico su un filo sottile che io e Carla stavamo intraprendendo.
Io e Pino ci salutammo con la solita illusoria promessa che bisognava trovare più occasioni per quei incontri. Visto che, ammesso ci fossimo nuovamente incontrati sulla stessa nave da crociera, il suo ruolo impediva che si avvicinasse nemmeno lontanamente ad un bicchiere che non fosse di acqua.

lunedì 26 novembre 2012

parte 12.1



Alle tredici avevo un impegno già preso da alcuni giorni per un pranzo frugale con un  amico, Pino Della Terra.
Pino l’ho conosciuto a bordo della prima nave da crociera su cui sono stato imbarcato. Diventammo subito amici, merito o causa dell’appartenenza che avevamo in comune: la stessa città natale. Era figlio di madre israeliana e padre triestino di origine ebrea. Lui era alto e di corporatura robusta, capelli castani e occhi chiari di  ghiaccio, probabilmente discendeva da qualche famiglia di origine tedesca o polacca. Quando era a Trieste in congedo dava una mano al negozio di antichità del fratello, situato nel centro storico della città. A bordo della nave, invece, si occupava di security. Sapevo che per un certo periodo Pino aveva vissuto in Israele e che lì aveva fatto il servizio militare.
Ci trovammo per un panino in un buffet nel centro cittadino. Locale pieno di gente di tutti i tipi che consumano pranzi o merende velocissimi dettati da pause ristrette di lavoro. C’era un via vai di gente. Chi con cravatte nuove e chi con tute da lavoro usurate. Ognuno la sua divisa, imposta dal tipo di lavoro per la sua praticità. Se le tute da lavoro e le loro molteplici tasche aiutano l’operaio a contenere attrezzi di lavoro, anche una cravatta nuova può dimostrarsi pratica nell’incarico affidatoli: infonde serietà e professionalità, evitando di doverle dimostrare.  A volte per guadagnare tempo. Spesso per la sola incapacità di poterle comprovare.
Pino vestiva con abiti che definirei casual (termine inglese, che cerca di ridare della dignità a quei vestiti messi a caso), era una persona che nutriva di più la sua anima che il suo aspetto, per questo spassoso ed intelligente. Forse proprio per questo sempre pronto ad assaporare i piaceri che la vita può offrire, nella fattispecie, le rare volte che ci si vedeva per questi frugali pranzi, non mancavano mai alcuni bicchieri di vino. Rigorosamente di qualità. Adorava i vini siciliani. Ne disquisiva sempre volentieri, asserendo che i vini siciliani, se non sono di ottima qualità sono assolutamente pessimi, senza passare per mezze misure. E senza usare mezzi termini. Certo è che la loro alta gradazione ci conferiva ogni qual volta una diffusa piacevolezza.

venerdì 23 novembre 2012

parte... imprecisata...




Erano le quattro e venticinque di una notte oramai stanca e di una mattina non ancora rivelata. Le colline che accompagnavano un’autostrada deserta che dal confine italiano di Fernetti proseguiva in direzione della capitale Slovena prendevano forma. Natasha si trovava a guidare la sua Alfa Mito nera, ben attenta a non oltrepassare i limiti di velocità, anche se sapeva bene che mai a quell’ora autopattuglie della polizia slovena si trovassero su quel tratto che lei percorreva con una certa assiduità. Nei pressi di Lubiana, la macchina nera imbocco l’uscita per un paesino di nome Vhrnika, per poi fermarsi in una piazza come da istruzioni ricevute via sms. Doveva incontrare un uomo, sempre lo stesso, ma in luoghi sempre diversi che le venivano forniti all’ultimo momento. Sì fermò e spense le luci, era puntuale, l’uomo non c’era. Aspettò dentro l’auto, assieme a mille pensieri ed ancora più dubbi. Era stufa, di tutto e di tutti. O di quasi tutti. Era turbata, ed il suo volto non riusciva a celarlo.
Dopo dieci minuti arrivò una Bmw, scese un uomo di media corporatura apparentemente distinto, portava un cappotto grigio, un cappello grigio e guanti di pelle nera. Apri il bagagliaio ne estrasse una grossa valigia rigida tipo Samsonite, Natasha scese dall’auto e aprì il portellone della sua Mito, l’uomo ci infilò la valigia.
“Buongiorno Natasha”
“Buongiorno signor Igor”
“Tutto bene Natasha? Ti vedo stanca…”
“No signor Igor, tutto bene”
Il tale signor Igor la guardò negli occhi, sfoderando un sorriso rassicurante che ricordava un politico italiano dalla faccia che sembra una maschera.
“Meglio così, d’altra parte sei la puttana più ricca dell’Ucraina, di cosa ti puoi lamentare?”
Natasha non rispose, la verità fa male.
“Ah, l’altro ieri ho visto la tua sorellina, sta crescendo bene, così come il suo seno, sta diventando proprio un bel bocconcino.”
“Non la guardare neanche, stalle lontano o…”
“Shhhh… fai la brava cagnetta… Ora vai a fare quello che sai. E non preoccuparti. Non serve.”
Natasha obbedì, sapeva di non poter fare altro, prese la strada del ritorno.
L’uomo la guardò impassibile andarsene, poi estrasse dal suo cappotto un telefonino, fece velocemente un numero, rispose una segreteria telefonica:
“la corriera ha esaurito la benzina.”
Poi spense il cellulare estraendo batteria e sim, buttandoli poi in un cassonetto adiacente.
Natasha si stava asciugando le lacrime mentre guidava spingendo sull’acceleratore e portando la macchina attorno ai 180 chilometri l’ora. Incurante di quei limiti che fino a poco fa stava perfettamente attenta, come se voleva essere fermata. Prese il cellulare fece il numero della persona di cui era innamorata. Pensò ai consigli dati appena qualche giorno prima alla sua collega Carla e pensò quanto sia facile dispensare pillole di verità e quanto sia difficile ingoiarle.
Dall’altro capo una voce di donna.
“Pronto?”
“Tesoro, sono io…”
“Natasha… che ora è? Che cosa succede?”
“Volevo sentire la tua voce, mi manchi…”
“Sono le cinque meno dieci, non mi chiami solo per sentire la mia voce…mi fai preoccupare.”
Devi preoccuparti.
“Tutto bene se ti vedo… “
“Allora dammi il tempo di indossare qualcosa. Fra trenta minuti al solito posticino nostro, ok?”
Non perdere tempo a vestirti…
“Sì tesoro, va benissimo… ti amo…”
“ A fra poco zuccherino mio”


Arrivò per prima una pattuglia della polizia del reparto di Opicina. Dalla volante scesero tre agenti, dall’altra parte tre ciclisti, un’Alfa Mito nera e un cadavere.

martedì 13 novembre 2012

autunno


Anche quest'anno come l'altro e l'altro ancora il sole va calando, si accorciano le giornate mentre la nostra ombra si allunga e si fa pesante, il carico da sopportare aumenta come aumentano i fagotti sulle spalle per proteggerci dal freddo e per tenere dentro quel tepore di un’estate passata un’altra volta per sempre.

La fatica e le difficoltà non concedono la possibilità di capire che l’unica strada utile per seguire la ragione è abbandonarsi a una corsa sfrenata sul cammino della follia.


Una volta che ti avrò tolto i vestiti spegnerò la luce, 



Così ti riuscirò a vedere bene. Dentro...

lunedì 12 novembre 2012

parte 11.1



Carla mi chiese conferma di ciò che provavo per lei. Ero come in difficoltà, dirle che l’amavo mi sembrava, per quanto veritiero, dozzinale. Volevo dire molto di più, ma non mi uscivano le parole giuste. Mi chiese allora di scriverle qualcosa, forse così mi sarebbe stato più facile.

Il giorno dopo le scrissi un biglietto a mano, su una carta pergamenata, poi comprai una piccola cornice di ceramica di una contessa altoatesina, da porre su un piano. Ci infilai dentro queste parole:

Potrei dirti che ti voglio bene, ma mi appare poco,
potrei dirti che ti adoro, ma non è abbastanza,
potrei dirti che ti amo, ma te l’ho già detto,
potrei dirti che sei dentro di me, nei mie pensieri, sulla mia pelle,
o dirti che mi sembra di respirarti,
e poi di essere l’aria che entra nel tuo corpo.
Come se tu fossi all’interno di me e poi io dentro di te.
Ma preferisco che tu, guardandomi negli occhi,
possa scoprire questo e quanto altro ancora provo,
che non so dire
e che non so scrivere,
perché non esistono le parole.



Preparai il tutto in una mattina soleggiata che lasciava intravedere la possibilità che presto sarebbe arrivata la primavera. Mi sembrava, forse, anche per questo motivo meteorologico la giornata giusta per farlo. Arrivava la primavera, ovunque. Lasciai la cornice e le mie parole sul comò, in camera da letto. Non le anticipai nulla, volevo assaporare la sua reazione naturale. Non forzata da un annuncio.
 

parte 10.3



Suonò il campanello. Mantenne fede alla promessa appena fatta. Le volevo chiedere qualcosa, ad esempio come stava… Ma mi fermò. Fermò le mie domande mettendomi il suo dito indice di traverso sulle mie labbra, mentre con l’altra mano mi sfiorò il petto. Le parole si eclissarono con il soffio carezzevole del suo bacio. Appese il capotto sull’attaccapanni vicino all’ingresso, si tolse le scarpe, quindi il resto dei vestiti scivolarono, senza far rumore, giù sul pavimento. Si diresse in camera alla volta del letto a baldacchino. La guardai e vedendo, nelle sue sinuose curve, uno splendido Stradivari, appresi di essere un talentuoso pronto a suonare tutte le opere per archi di Brahms. E null’altro teneva importanza.
La Buoilabaisse poteva aspettare, ero certo che di suo non avrebbe avuto nulla da ridire.
Ci perdemmo uno nel corpo dell’altra. Era un gioco diverso dalle altre volte. Era un gioco fatto di baci ed abbracci. Di carezze e di tenerezze. Di parole e di confessioni, quelle che si fanno agli amati, quelle che alcuni dicono per circostanza, ma nuove per noi e soprattutto affatto scontate.
Ricordo che alla radio passò una nuova canzone di una bianca promessa della musica soul, Adele. Quella musica, ogni volta che la risento, mi riconsegna a quel momento. Fu il giorno più bello passato con lei che io possa rammentare.

venerdì 19 ottobre 2012

parte 10.2



Camminando senza una direzione, e passando per vie e piazze dai nomi di eroi italiani e dalle fragranze di piatti asburgici, Carla si ritrovò in quello che ora viene chiamato Molo Audace, ma che una volta, prima che approdasse il cacciatorpediniere italiano che ne diede il nome alla fine della prima guerra mondiale, era conosciuto come Molo San Carlo.
Guardò i gabbiani librarsi nel cielo sfruttando le correnti del vento. Invidiò quei uccelli liberi e candidi, che anche nei giorni dove la bora soffia forte, non cadono mai. Avrebbe voluto spiccare anch’essa il volo. O forse solamente buttarsi dal quel molo in fronte ad una delle piazze più belle che esistano sul mare, e nel mare affondare. Velocemente, divorata da Nettuno. Confidando che il macigno portato dentro facesse il suo dovere.
Nuovamente le squillò il cellulare, le voci di Shakira e di Pitbull la reclamavano per conto di qualcun altro.
Questa volta rispose.

“Carla, dove sei? E’ tardi e ti stavamo aspettando… io e la Bouilbaisse.” Incolpai così la zuppa di pesce della mia gelosia e delle paure che mi facevo, non vedendola arrivare.
“Ora arrivo, ho avuto un contrattempo sul lavoro…in ufficio. Ti amo, e mi manchi bell’uomo.”
“ Ti adoro splendida fanciulla.”
Ci salutammo velocemente con la sua promessa che sarebbe arrivata il prima possibile.
Non lo so bene il perché, ma qualcosa mi suonava strano, fosse solo per il motivo che non lo aveva finora mai fatto, o forse perché non capivo che genere di contrattempo potesse avere una telefonista. Ma tant’è, mi fidavo di lei. Non avevo motivo di dubitare delle sue parole. O non mi sentivo il diritto di farlo, ci conoscevamo da poco e conoscevo tutti i suoi segreti. Soprattutto quelli inconfessabili.

lunedì 1 ottobre 2012

parte 10.1




Carla non andò a casa. Iniziò a girovagare senza una meta. Non aveva ancora capito tutto il senso di quello che le era appena stato detto. Ed aveva bisogno di riflettere. La sua vita si trovò d’un tratto ad un bivio, tra ciò che voleva lei e quello che altri volevano per lei. Tra l’incognita di una nuova emozione e la sicurezza di un’abitudine a cui era educata a sottostare, per vivere o solo per sopravvivere. Tra  il buio schietto dell’ignoto e la luce artificiale dell’abitudine.
Il sole basso di quella giornata invernale accentuava la sua ombra, il suo lato oscuro, quello che ogni uomo ed ogni donna si portano dietro, spesso con imbarazzo, altre volte come un ingombro, sempre con fatica. E senza la possibilità di separarsene, di poter percorrere, anche un solo giorno, o una sola ora, strade diverse.
I suoi pensieri spaziavano dalla sua infanzia ed alle attenzioni dei suoi genitori, al giorno che conobbe Natasha ed il Venezuelas, per arrivare al suo primo bacio francese dato ad un buffo compagno di classe in seconda media ed all’ultimo dato, quella mattina, sulla guancia dell’uomo che amava, lievemente per non svegliarlo.
Pensieri concatenati, come se avessero un filo conduttore, in cerca di uno scopo. O di un perché.
Le sembrò che la sua vita fosse al pari di una fiaba: lei prigioniera in una torre, messa lì da mamma e papà e guardata a vista da un perfido drago. Aspettando che il principe azzurro giungesse a salvarla.
Invece è arrivato Shrek… osservò. Mentre un accenno di sorriso apparve e subito scomparve sulle sue labbra secche per il freddo e prive di quel rossetto che invece eccedeva di notte.
Infatti, la prima volta che vide e conobbe Giovanni, probabilmente per il modo di muoversi e di porsi, lo immedesimò a quella figura burlesca e goffa di quel cartone della Dreamworks. Ed i suoi amici ricordavano per qualche analogia ciuchino. L’asinello amico fedele di Shrek. Pensandoci bene, ricordavano ciuchino solamente in quanto erano tutti ciucchi… riconsiderò Carla.
Le ritornò a mente il primo giorno di lavoro al night, prima dell’esibizione Almir le disse che le donne belle come lei sono un capolavoro d’arte e come l’arte c’è chi la sa fare e chi la sa vendere. Lui la sapeva vendere, bene. E lei era la sua tela; la sua ballerina di Degas. Parole rimaste indelebili nella sua mente che l’hanno lasciata intimorita, soprattutto perché dette con uno sguardo ferreo che Almir ostentava nelle sue parole che non ammettevano diritto di replica.
In merito, rammentò, con un brivido freddo lungo la schiena, le parole del professore d’arte del liceo: l’arte e la merda sono simili, c’è sempre qualcuno che la vende e c’è sempre qualcuno che la compra. E spesso sono confuse tra di loro.
Riecheggiarono anche le parole di  Natasha sugli uomini che frequentavano il locale, “ Sono persone fragili, con la paura di dichiarare tutto l’amore che hanno e provano, per il terrore di non essere corrisposti. Proprio per ciò, essi trovano rassicurante pagare per amare ed essere amati. E’ proprio come il titolo di dottore che tu hai conseguito: esercitiamo un ruolo che può essere considerato tra lo psicologo e l’assistente sociale.”
Ma che dell’argomento nessun docente non aveva mai né accennato, né tantomeno preparato alcun laureando.
Carla avvertì un vuoto dentro. Rifletté a come mai se il vuoto non pesa si sentisse un macigno nello stomaco.
Nel frattempo squillò il suo cellulare, ma lei presa da invadenti pensieri non se ne accorse nemmeno. O non gli diede credito.

martedì 25 settembre 2012

riflessioni sottosopra

Questo blog è nato per gioco, o meglio per mettermi in gioco, volevo vedere se riuscivo tecnicamente a farne uno. E volevo sapere se qualcuno avesse mai perso tempo a leggermi. Il tema dello stesso sono i sentimenti e le passioni, spesso non corrisposti, e se corrisposti qualcosa o qualcuno è sempre pronto a contrapporsi. A volte il tempo, a volte le situazioni, a volte niente; ma un niente che come un vuoto d'aria aspira tutto a se portando via ciò che conta. O da ciò che conta. Ma poi cosa conta? Conta solo quello che ci fa soffrire? Conta solo quello che non possiamo avere? O conta solo l'orgoglio. L'orgoglio che divora le anime o l'orgoglio che manda tutto a puttane? Poi le puttane chi sono? Quelle che vendono il loro corpo per darti cinque minuti di felicità o quelle che per darti cinque minuti di felicità ti fanno (s)vendere l'anima?
Se risposte certe non esistono, bisogna però ricordare, per evitare di essere presi sul serio, che le domande sono solo finzione teatrale. Nessuno me ne abbia.
E nessun dorma...

Dilegua, o notte!... Tramontate, stelle!...
All'alba vincerò!...

parte 9.2



“La mia vita privata non gli deve interessare.” Disse Carla con tono seccato, non tanto per Natasha, ma per l’evidente ingerenza del suo angolino di vita privata da parte dei suoi datori di lavoro notturno.
“Non è così, mio cuore.”
“Accidenti se è così”
“No! Non lo è. Tu sei la loro gallina dalle uova d’oro.” Accentuò volutamente “la loro”.
Nessuno aveva mai indicato Carla come gallina, la cosa non le piacque. Ed il suo sguardo lo rivelò chiaramente.
“Cuore mio, prova a capire… pensa a quanti clienti vengono lì per te, solo per te, sei la più bella. Sei diversa da tutte le altre, hai qualcosa in più, hai quella sensualità misto a purezza e quell’ ingenuità che piace agli uomini. Sai di acerba, sembri una mela ancora da cogliere. Tutti vogliono credere di essere i primi a cogliere il tuo frutto.”
Carla, se da una parte si sentì lusingata per quelle parole, dall’altra si sentì infastidita. Il motivo era comunque lo stesso e Natasha aveva maledettamente ragione.
Carla continuò a prestare attenzione in silenzio.
“Tacos asseriva che da un po’ di tempo non sei più la stessa, che Miss Downey non attizza più. I clienti cercano altre. Ma soprattutto che sia tu non cercare loro.”
“ Ascolta la tua amica, ascolta chi ha già passato quello che ora stai provando tu. Lascia quell’uomo, l’amore è solo reazioni chimiche, così come chimiche sono le tossine e come le tossine fa male, è una malattia, una piaga. Non siamo fatti per amare. L’amore porta  più sofferenza che felicità.”
Il rombo del passaggio di una moto elaborata interruppe la frase per un attimo. Tempo per dare a Carla il pensiero sfuggente di come e quanto Natasha ne sapesse sulle tossine.
“ E poi quelli lì sono capaci di tutto. Lo sai bene. Dovete stare attenti. ”
Poi sottovoce, fra se e se, aggiunse: “Dobbiamo stare attente.”
“Va bene Natasha, ci penserò su. Grazie per tutto quello che stai facendo per me. Sei una brava persona. Ti voglio bene. Ora, se non hai altro da dirmi andrei a casa.”
Lo disse in modo spicciolo in parte perché voleva separarsi da chi l’aveva gettata nella fossa di quei leoni chiamati dilemmi ed in parte pensando a Giovanni che l’aspettava.


La collega di Lap Dance arrivata dall’Ucraina, venuta in cerca di vita migliore di quella lasciata alle spalle, in un paese alla periferia dell’Europa, che per ironia della sorte è anche il significato del suo nome, abbracciò forte Carla. Poi solo con lo sguardo la salutò, cambiando subito marciapiede dirigendosi altrove: doveva darle spazio, in modo che  potesse elaborare quelle sue parole.
 

lunedì 24 settembre 2012

parte 9.1



Carla ricevette un sms: “Ti devo parlare. Urgente, sono sotto il tuo lavoro.” era Natasha, una sua collega del Venezuelas. Mancava ancora un’ora alla fine del suo turno: Carla si recò dal suo capo domandando un permesso. Sapeva che non era solito darne. Quindi sfoderando una faccia desolata e adducendo che la madre stava molto male chiese di lasciare anticipatamente il lavoro.
Natasha non era solo una sua collega, era la sua migliore amica del club: quella che fin dal primo giorno l’aveva aiutata, seguita e consigliata. Rincuorata all’occorrenza. La conosceva, bene e se lei diceva che era urgente lo doveva essere sicuramente. Carla scese le scale ed uscì dall’edificio rosso mattone,
una volta sede di una rinomata società produttrice di liquori, ora sede di una Società di assicurazioni.
Natasha era lì, la stava aspettando, sembrava visibilmente preoccupata.
“ Ciao mio cuore” disse Natasha abbracciandola.
“ Che bella sorpresa che mi hai fatto. E’ bello vederti fuori dal lavoro.”
“Non ho voluto venire, ho dovuto”
“Natasha, mi fai preoccupare.”
“ Mio cuore, ti devi preoccupare.” Natasha parlava sempre così con tutti, era un suo intercalare, indifferentemente se si rivolgesse ad un uomo o ad una donna.
“ Andiamo a prenderci un caffè. Non posso rimanere qui sotto, sapessi che storia ho dovuto raccontare per andarmene prima. Per certi versi sono più controllata qui che giù al locale da Tacos…”
“Andiamo, ma restiamo all’aperto. Quello che ho da dirti è meglio che non lo senta nessuno.”
Si incamminarono. Carla guardava la sua collega ed amica con preoccupazione misto a stupore, non capiva cosa le stava per cadere addosso.
“Vedi, stamane, sono tornata al locale, ieri avevo dimenticato lì il telefonino. Mi faccio sempre gli affari miei, ma questa volta ho sentito qualcosa che proprio non avrei voluto sentire. Lo sai che ti voglio un mondo di bene… ti considero come una sorella… ti devo raccontare tutto.”
“Natasha, ti voglio bene anch’io e mi preoccupo per te. Non metterti in situazioni di cui poi non sai come uscirne.”
“Mio cuore, devi stare attenta, Tacos parlava con Almir di te, dicevano che ti vedi con qualcuno e da troppo tempo”.


Almir, era la mente del Venezuelas,  un metro e ottantasette di altezza, corporatura apparentemente esile, capelli corti e brizzolati, barba incolta e portamento signorile, colui che risolveva tutti i problemi logistici: dal pagare le fatture a foraggiare i poliziotti. Era una persona colta, e per questo più pericolosa. Dimostrava sempre una efferata lucidità criminale. Si diceva fosse laureato a pieni voti in legge all’Università di Tirana, che avesse un Master in criminologia conseguito a Londra in collaborazione con Scotland Yard e non di meno che per un certo periodo fosse stato un funzionario del Sigurimi, la polizia segreta albanese, durante la dittatura comunista.