lunedì 26 novembre 2012

parte 12.1



Alle tredici avevo un impegno già preso da alcuni giorni per un pranzo frugale con un  amico, Pino Della Terra.
Pino l’ho conosciuto a bordo della prima nave da crociera su cui sono stato imbarcato. Diventammo subito amici, merito o causa dell’appartenenza che avevamo in comune: la stessa città natale. Era figlio di madre israeliana e padre triestino di origine ebrea. Lui era alto e di corporatura robusta, capelli castani e occhi chiari di  ghiaccio, probabilmente discendeva da qualche famiglia di origine tedesca o polacca. Quando era a Trieste in congedo dava una mano al negozio di antichità del fratello, situato nel centro storico della città. A bordo della nave, invece, si occupava di security. Sapevo che per un certo periodo Pino aveva vissuto in Israele e che lì aveva fatto il servizio militare.
Ci trovammo per un panino in un buffet nel centro cittadino. Locale pieno di gente di tutti i tipi che consumano pranzi o merende velocissimi dettati da pause ristrette di lavoro. C’era un via vai di gente. Chi con cravatte nuove e chi con tute da lavoro usurate. Ognuno la sua divisa, imposta dal tipo di lavoro per la sua praticità. Se le tute da lavoro e le loro molteplici tasche aiutano l’operaio a contenere attrezzi di lavoro, anche una cravatta nuova può dimostrarsi pratica nell’incarico affidatoli: infonde serietà e professionalità, evitando di doverle dimostrare.  A volte per guadagnare tempo. Spesso per la sola incapacità di poterle comprovare.
Pino vestiva con abiti che definirei casual (termine inglese, che cerca di ridare della dignità a quei vestiti messi a caso), era una persona che nutriva di più la sua anima che il suo aspetto, per questo spassoso ed intelligente. Forse proprio per questo sempre pronto ad assaporare i piaceri che la vita può offrire, nella fattispecie, le rare volte che ci si vedeva per questi frugali pranzi, non mancavano mai alcuni bicchieri di vino. Rigorosamente di qualità. Adorava i vini siciliani. Ne disquisiva sempre volentieri, asserendo che i vini siciliani, se non sono di ottima qualità sono assolutamente pessimi, senza passare per mezze misure. E senza usare mezzi termini. Certo è che la loro alta gradazione ci conferiva ogni qual volta una diffusa piacevolezza.

venerdì 23 novembre 2012

parte... imprecisata...




Erano le quattro e venticinque di una notte oramai stanca e di una mattina non ancora rivelata. Le colline che accompagnavano un’autostrada deserta che dal confine italiano di Fernetti proseguiva in direzione della capitale Slovena prendevano forma. Natasha si trovava a guidare la sua Alfa Mito nera, ben attenta a non oltrepassare i limiti di velocità, anche se sapeva bene che mai a quell’ora autopattuglie della polizia slovena si trovassero su quel tratto che lei percorreva con una certa assiduità. Nei pressi di Lubiana, la macchina nera imbocco l’uscita per un paesino di nome Vhrnika, per poi fermarsi in una piazza come da istruzioni ricevute via sms. Doveva incontrare un uomo, sempre lo stesso, ma in luoghi sempre diversi che le venivano forniti all’ultimo momento. Sì fermò e spense le luci, era puntuale, l’uomo non c’era. Aspettò dentro l’auto, assieme a mille pensieri ed ancora più dubbi. Era stufa, di tutto e di tutti. O di quasi tutti. Era turbata, ed il suo volto non riusciva a celarlo.
Dopo dieci minuti arrivò una Bmw, scese un uomo di media corporatura apparentemente distinto, portava un cappotto grigio, un cappello grigio e guanti di pelle nera. Apri il bagagliaio ne estrasse una grossa valigia rigida tipo Samsonite, Natasha scese dall’auto e aprì il portellone della sua Mito, l’uomo ci infilò la valigia.
“Buongiorno Natasha”
“Buongiorno signor Igor”
“Tutto bene Natasha? Ti vedo stanca…”
“No signor Igor, tutto bene”
Il tale signor Igor la guardò negli occhi, sfoderando un sorriso rassicurante che ricordava un politico italiano dalla faccia che sembra una maschera.
“Meglio così, d’altra parte sei la puttana più ricca dell’Ucraina, di cosa ti puoi lamentare?”
Natasha non rispose, la verità fa male.
“Ah, l’altro ieri ho visto la tua sorellina, sta crescendo bene, così come il suo seno, sta diventando proprio un bel bocconcino.”
“Non la guardare neanche, stalle lontano o…”
“Shhhh… fai la brava cagnetta… Ora vai a fare quello che sai. E non preoccuparti. Non serve.”
Natasha obbedì, sapeva di non poter fare altro, prese la strada del ritorno.
L’uomo la guardò impassibile andarsene, poi estrasse dal suo cappotto un telefonino, fece velocemente un numero, rispose una segreteria telefonica:
“la corriera ha esaurito la benzina.”
Poi spense il cellulare estraendo batteria e sim, buttandoli poi in un cassonetto adiacente.
Natasha si stava asciugando le lacrime mentre guidava spingendo sull’acceleratore e portando la macchina attorno ai 180 chilometri l’ora. Incurante di quei limiti che fino a poco fa stava perfettamente attenta, come se voleva essere fermata. Prese il cellulare fece il numero della persona di cui era innamorata. Pensò ai consigli dati appena qualche giorno prima alla sua collega Carla e pensò quanto sia facile dispensare pillole di verità e quanto sia difficile ingoiarle.
Dall’altro capo una voce di donna.
“Pronto?”
“Tesoro, sono io…”
“Natasha… che ora è? Che cosa succede?”
“Volevo sentire la tua voce, mi manchi…”
“Sono le cinque meno dieci, non mi chiami solo per sentire la mia voce…mi fai preoccupare.”
Devi preoccuparti.
“Tutto bene se ti vedo… “
“Allora dammi il tempo di indossare qualcosa. Fra trenta minuti al solito posticino nostro, ok?”
Non perdere tempo a vestirti…
“Sì tesoro, va benissimo… ti amo…”
“ A fra poco zuccherino mio”


Arrivò per prima una pattuglia della polizia del reparto di Opicina. Dalla volante scesero tre agenti, dall’altra parte tre ciclisti, un’Alfa Mito nera e un cadavere.

martedì 13 novembre 2012

autunno


Anche quest'anno come l'altro e l'altro ancora il sole va calando, si accorciano le giornate mentre la nostra ombra si allunga e si fa pesante, il carico da sopportare aumenta come aumentano i fagotti sulle spalle per proteggerci dal freddo e per tenere dentro quel tepore di un’estate passata un’altra volta per sempre.

La fatica e le difficoltà non concedono la possibilità di capire che l’unica strada utile per seguire la ragione è abbandonarsi a una corsa sfrenata sul cammino della follia.


Una volta che ti avrò tolto i vestiti spegnerò la luce, 



Così ti riuscirò a vedere bene. Dentro...

lunedì 12 novembre 2012

parte 11.1



Carla mi chiese conferma di ciò che provavo per lei. Ero come in difficoltà, dirle che l’amavo mi sembrava, per quanto veritiero, dozzinale. Volevo dire molto di più, ma non mi uscivano le parole giuste. Mi chiese allora di scriverle qualcosa, forse così mi sarebbe stato più facile.

Il giorno dopo le scrissi un biglietto a mano, su una carta pergamenata, poi comprai una piccola cornice di ceramica di una contessa altoatesina, da porre su un piano. Ci infilai dentro queste parole:

Potrei dirti che ti voglio bene, ma mi appare poco,
potrei dirti che ti adoro, ma non è abbastanza,
potrei dirti che ti amo, ma te l’ho già detto,
potrei dirti che sei dentro di me, nei mie pensieri, sulla mia pelle,
o dirti che mi sembra di respirarti,
e poi di essere l’aria che entra nel tuo corpo.
Come se tu fossi all’interno di me e poi io dentro di te.
Ma preferisco che tu, guardandomi negli occhi,
possa scoprire questo e quanto altro ancora provo,
che non so dire
e che non so scrivere,
perché non esistono le parole.



Preparai il tutto in una mattina soleggiata che lasciava intravedere la possibilità che presto sarebbe arrivata la primavera. Mi sembrava, forse, anche per questo motivo meteorologico la giornata giusta per farlo. Arrivava la primavera, ovunque. Lasciai la cornice e le mie parole sul comò, in camera da letto. Non le anticipai nulla, volevo assaporare la sua reazione naturale. Non forzata da un annuncio.
 

parte 10.3



Suonò il campanello. Mantenne fede alla promessa appena fatta. Le volevo chiedere qualcosa, ad esempio come stava… Ma mi fermò. Fermò le mie domande mettendomi il suo dito indice di traverso sulle mie labbra, mentre con l’altra mano mi sfiorò il petto. Le parole si eclissarono con il soffio carezzevole del suo bacio. Appese il capotto sull’attaccapanni vicino all’ingresso, si tolse le scarpe, quindi il resto dei vestiti scivolarono, senza far rumore, giù sul pavimento. Si diresse in camera alla volta del letto a baldacchino. La guardai e vedendo, nelle sue sinuose curve, uno splendido Stradivari, appresi di essere un talentuoso pronto a suonare tutte le opere per archi di Brahms. E null’altro teneva importanza.
La Buoilabaisse poteva aspettare, ero certo che di suo non avrebbe avuto nulla da ridire.
Ci perdemmo uno nel corpo dell’altra. Era un gioco diverso dalle altre volte. Era un gioco fatto di baci ed abbracci. Di carezze e di tenerezze. Di parole e di confessioni, quelle che si fanno agli amati, quelle che alcuni dicono per circostanza, ma nuove per noi e soprattutto affatto scontate.
Ricordo che alla radio passò una nuova canzone di una bianca promessa della musica soul, Adele. Quella musica, ogni volta che la risento, mi riconsegna a quel momento. Fu il giorno più bello passato con lei che io possa rammentare.