lunedì 1 ottobre 2012

parte 10.1




Carla non andò a casa. Iniziò a girovagare senza una meta. Non aveva ancora capito tutto il senso di quello che le era appena stato detto. Ed aveva bisogno di riflettere. La sua vita si trovò d’un tratto ad un bivio, tra ciò che voleva lei e quello che altri volevano per lei. Tra l’incognita di una nuova emozione e la sicurezza di un’abitudine a cui era educata a sottostare, per vivere o solo per sopravvivere. Tra  il buio schietto dell’ignoto e la luce artificiale dell’abitudine.
Il sole basso di quella giornata invernale accentuava la sua ombra, il suo lato oscuro, quello che ogni uomo ed ogni donna si portano dietro, spesso con imbarazzo, altre volte come un ingombro, sempre con fatica. E senza la possibilità di separarsene, di poter percorrere, anche un solo giorno, o una sola ora, strade diverse.
I suoi pensieri spaziavano dalla sua infanzia ed alle attenzioni dei suoi genitori, al giorno che conobbe Natasha ed il Venezuelas, per arrivare al suo primo bacio francese dato ad un buffo compagno di classe in seconda media ed all’ultimo dato, quella mattina, sulla guancia dell’uomo che amava, lievemente per non svegliarlo.
Pensieri concatenati, come se avessero un filo conduttore, in cerca di uno scopo. O di un perché.
Le sembrò che la sua vita fosse al pari di una fiaba: lei prigioniera in una torre, messa lì da mamma e papà e guardata a vista da un perfido drago. Aspettando che il principe azzurro giungesse a salvarla.
Invece è arrivato Shrek… osservò. Mentre un accenno di sorriso apparve e subito scomparve sulle sue labbra secche per il freddo e prive di quel rossetto che invece eccedeva di notte.
Infatti, la prima volta che vide e conobbe Giovanni, probabilmente per il modo di muoversi e di porsi, lo immedesimò a quella figura burlesca e goffa di quel cartone della Dreamworks. Ed i suoi amici ricordavano per qualche analogia ciuchino. L’asinello amico fedele di Shrek. Pensandoci bene, ricordavano ciuchino solamente in quanto erano tutti ciucchi… riconsiderò Carla.
Le ritornò a mente il primo giorno di lavoro al night, prima dell’esibizione Almir le disse che le donne belle come lei sono un capolavoro d’arte e come l’arte c’è chi la sa fare e chi la sa vendere. Lui la sapeva vendere, bene. E lei era la sua tela; la sua ballerina di Degas. Parole rimaste indelebili nella sua mente che l’hanno lasciata intimorita, soprattutto perché dette con uno sguardo ferreo che Almir ostentava nelle sue parole che non ammettevano diritto di replica.
In merito, rammentò, con un brivido freddo lungo la schiena, le parole del professore d’arte del liceo: l’arte e la merda sono simili, c’è sempre qualcuno che la vende e c’è sempre qualcuno che la compra. E spesso sono confuse tra di loro.
Riecheggiarono anche le parole di  Natasha sugli uomini che frequentavano il locale, “ Sono persone fragili, con la paura di dichiarare tutto l’amore che hanno e provano, per il terrore di non essere corrisposti. Proprio per ciò, essi trovano rassicurante pagare per amare ed essere amati. E’ proprio come il titolo di dottore che tu hai conseguito: esercitiamo un ruolo che può essere considerato tra lo psicologo e l’assistente sociale.”
Ma che dell’argomento nessun docente non aveva mai né accennato, né tantomeno preparato alcun laureando.
Carla avvertì un vuoto dentro. Rifletté a come mai se il vuoto non pesa si sentisse un macigno nello stomaco.
Nel frattempo squillò il suo cellulare, ma lei presa da invadenti pensieri non se ne accorse nemmeno. O non gli diede credito.

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