lunedì 27 maggio 2013

parte 21.2



Dirigendomi verso casa di Carla mi chiedevo perché lo facevo, forse glielo dovevo? Fra noi era tutto finito, ma in fondo le volevo bene ancora, ci siamo amati, non potevo rinnegare ciò che avevo provato e quindi non potevo far finire tutto nella totale indifferenza.
Eravamo stati l’uno la metà uno dell’altra. Mi piaceva questa definizione, e la sentivo quanto mai vera e mia.
Cerchiamo la nostra metà anche per tutta la vita, è la meta del nostro viaggio sulla terra.
Non sono un credente nel senso strettamente religioso, ma credo nello spirito, magari strettamente legato al fisico, in ognuno di noi c’è una spiritualità, che poi ognuno gli dà il nome che preferisce. Secondo me, la metà che cerchiamo non è un qualsiasi partner, o moglie, o amante è proprio la meta che ci manca, la parte che ci completa. E’ come se alla nascita qualcosa di noi si fosse scissa e finita chissà dove. Noi la cerchiamo, la dobbiamo trovare, ma deve essere quella, non una qualsiasi.
Come due pezzi di un puzzle.
Altrimenti non saremo mai completi. Né contenti.
Io l’avevo trovata e poi perduta.
Porcaccia la miseriaccia
Stavo per attraversare la strada senza guardare, distratto dai miei pensieri pseudo-neuro-psico-filosofici che un autobus mi sfiorò il naso di pochi centimetri. Forse anche qualche cosina di meno: dovevo smetterla di farmi pippe mentali! E dovevo svegliarmi! Cazzo!

parte 21.1



Sweet home Alabama vibrava e suonava dalla mia tasca. Dal display del telefonino lampeggiava il nome di Carla. Lo guardai per un po’. L’ultima volta che ci avevo parlato era in ospedale. E troppe cose erano successe. O sfuggite di mano. Non avevo voglia di parlarle. Premetti il tasto rosso che mi negava all’interlocutore. Continuai la conversazione con il mio amico Graziano Graz the Ganz e una delle sue tante amiche. Bravo lui: non si innamorava mai. Di nuovo il telefonino, di nuovo i Lynyrd Skynyrd con Sweet home Alabama, di nuovo quel nome che volevo scordare. Questa volta premetti il tasto verde, avrei voluto dire solamente brutte parole.
“Pronto” dissi con voce scocciata.
“Almir era qui…” poi singhiozzi. “Natasha la mia collega è morta…anzi no… l’hanno uccisa”
Poi un pianto.
“Carla spiegati, cos’è successo?”
Ancora pianti
“Carla, dimmi come stai ora, ti hanno fatto di nuovo del male?”
“no… no… sto bene, ma Natasha… l’hanno uccisa, ovvero è morta, ma sono convinta che sono stati loro.”
“Gli albanesi?”
“Sì”
“Dove sei Carla?”
“ A casa…”
“Ed Almir cosa ti ha fatto?”
“Niente… è stato gentile… anche se la sua gentilezza era… alquanto minacciosa.”
“Vengo da te…”
Chiusi il telefonino.
Forse non aspettavo altro che pronunciare quelle parole, o forse glielo dovevo. Probabilmente tutte e due le cose.
Mi rivolsi a Graziano e gli dissi che dovevo andare.
“ Problemi?”
“ Sì, e parecchi a quanto sembra.”
“ Posso aiutarti?”
“ Adesso no.”
“ Se ti servo, chiamami.”
Lo ringraziai. Anche se lo avrei mandato al diavolo: in parte era colpa sua di tutto ciò, fu lui a portarmi per la prima volta al Venezuelos.

parte 20.2



Il campanello di casa suonò due volte.
Solo il male imperterrito risorge ovunque.
Carla si chiese chi avrebbe potuto essere.
Si diede una sistemata veloce ai capelli e chiuse la zip della giacca della tuta di ciniglia che indossava.
Si avvicino alla porta e chiese chi è.
Rispose una voce roca: “fiori”.
Guardò fuori attraverso lo spioncino della porta. Vide solamente un sterminato mazzo di rose rosse.
Aprì la porta a quella che sembrava una promessa d’amore.
Ma dietro ai fiori un sorriso già conosciuto, uno di quelli che non puoi dimenticare, uno di quelli che ti fa accapponare la pelle.
“Buongiorno principessa”.
Era Almir.

parte 20.1



Carla era appena tornata a casa dall’ospedale, fisicamente era provata ma stava meglio, psicologicamente si sentiva un relitto dimenticato in fondo al mare: aveva perso il suo bambino, aveva perso Giovanni ed aveva appena perso la sua migliore amica.
No Nou, la venere nera del Venezuelas, andata a trovarla in ospedale il giorno prima, le raccontò della tragica morte di Natasha. Della quale non credeva nemmeno un po’ alle motivazioni dedotte dalla polizia sull’omicidio. Avevano parlato di uno rapporto sessuale o di uno stupro finito male. Natasha fu trovata mezza nuda, legata e con un sacchetto di nylon chiuso sulla sua testa: morta per asfissia.
“Idioti” Esclamò parlando con la tazza di tè che si era appena preparata.
“Come al solito non capiscono un cazzo!” Continuò mescolando un cucchiaino di miele di acacia.
“Non è possibile, Natasha sapeva sempre bene chi aveva diffronte, e non si sarebbe mai fatta legare da uno sconosciuto… è tutta una montatura…”.
“Il club nasconde qualcosa e Natasha ne era partecipe, ne sono certa…”
Continuò il suo monologo diretto al mondo. O solamente alla tazza di tè: perché il mondo come finora l’aveva finora conosciuto era finito. Definitivamente.

parte 19.3



Martini continuò a dare un’occhiata alla scena del crimine. Tenendosi a distanza dalla vipera con le stellette. Rimuginò che ne aveva abbastanza di vipere e che aveva già da tempo finito tutti gli antidoti per compensare i morsi della sua ex moglie. Egli era un uomo troppo dedito al lavoro, di quelli che trascurano la famiglia per finire il lavoro bene ed a qualunque costo. Costo che spesso paga la consorte. Costo che un giorno lei si rifiutò di onorare: una sera, rientrando tardissimo, dopo un lungo pedinamento,  Martini si ritrovò al cospetto di tre valige pronte e tre parole lapidarie:
Ho un altro.
La vice commissario ordinò qualcosa ai suoi uomini, ed uno andò subito alla radio.
Arrivò dopo una ventina di minuti la scientifica, e contemporaneamente una unità cinofila chiamata dalla Nobile.
Martini pensò che era troppo anche per lui, cinofila e scientifica avrebbero messo poco tempo a litigare tra loro, era giunto il tempo di scansarsi.
“Andiamo ragazzi, lasciamo il campo ai professionisti”

parte 19.2




Al permesso di andarsene i tre ciclisti montando in sella non persero tempo ad addentrarsi per un sentiero carsico irto di cespugli ed alberi, cosicché in pochi secondi mountain bike ed i loro cavalieri scomparvero.
Quasi contestualmente arrivò un’altra volante, era la Polizia di Frontiera, scese dall’auto la vice commissario Maddalena Nobile.
“Tanto bella quanto spacca marroni” disse sottovoce Martini alla vista della giovane donna; alta un metro e settantacinque, longilinea e nonostante la divisa presentava un seno procace, capelli neri lucidi che per l’occasione erano pettinati all’indietro e legati a coda facendo così risaltare ancora di più i suoi occhi azzurri chiarissimi che come l’espressione erano di ghiaccio.
“Ispettore, dove sono i ciclisti che hanno trovato il corpo?”
“Dottoressa buongiorno” L’accento sul buongiorno era voluto, Martini mal sopportava superiori strafottenti e maleducati.
“Si trattavano di tre colleghi della caserma dei pompieri, gli conosco e garantisco io per loro, sono d’accordo che poi passeranno in caserma per firmare una dichiarazione.”
Avvicinandosi alla vettura e dandoci un’occhiata dentro la Nobile rispose con aria di sufficienza e senza guardarlo negli occhi:
“Non mi risulta che i pompieri siano poliziotti ispettore.”
“In effetti no, ma come me e lei rispondono al Ministero dell’Interno”
Martini non era uno che si perdeva con le parole, e nemmeno con i fatti.
“Bene ispettore, facciamo così, le tolgo l’incombenza, porti quanto prima al mio commissariato la dichiarazione dei pompieri assieme alla sua. Prendiamo noi il caso.”
“Dottoressa, siamo arrivati per primi sulla scena del crimine…”
“Ispettore, siamo a pochi metri dal confine, la donna è straniera, ergo è nostra la giurisdizione.”
“Dottoressa…”
“Guardi che ho già parlato con il suo comandante, si tranquillizzi...”
“…A proposito ispettore, spero che nessuno abbia toccato nulla”
“Noi no, nemmeno i ciclisti… ma gentilmente, come fa a sapere che la donna è straniera?”
“Ho fatto i compiti, ispettore, ho fatto i compiti… La donna è una nostra conoscenza.”
“Agli ordini dottoressa, comunque aspetteremo qui l’arrivo della scientifica, dal momento che l’abbiamo chiamata noi.”