mercoledì 30 gennaio 2013

parte 19.1




I tre poliziotti si avvicinarono ai ciclisti ancora esterrefatti per avere incontrato quella mattina una donna orribilmente morta sulla loro spensierata via, lontano dalla strada, dai rumori e dal caos.
Si sarebbero aspettati una famiglia di cinghiali attraversargli il sentiero che percorrevano, magari un cane rincorrere uno dei loro polpacci, ma una macchina nera sporcata del rosso colore del sangue proprio no.
“Sono l’ispettore Franco Martini della squadra mobile di Opicina” Si qualifico l’agente più anziano.
Risposero i loro nomi quasi in coro i tre ciclisti, infreddoliti dal stare fermi con addosso tutine adatte ad atleti dai sforzi muscolari intensi e continuati, non sicuramente adatte a dei spettatori di morte.
“Immagino che abbiate chiamato il 113 appena visto il cadavere, avete toccato qualcosa?”
“ Sì abbiamo chiamato subito e no, non abbiamo toccato nulla” Rispose Giuseppe Collavini, quello che sembrava il “capo gita”.
“ Siamo tre pompieri della caserma di Opicina e senza questi caschi da ciclista e con la nostra divisa probabilmente ci avrebbe già riconosciuti.” Disse togliendosi gli occhiali specchiati che portava.
“Accidenti vero, ora la riconosco, se il mondo è piccolo, Opicina è meno che piccolissima. Questo mi semplifica un po’ le cose. Vi lascio procedere, passate più tardi presso il nostro commissariato così ci firmate una breve dichiarazione.”
“Come vuole ispettore.”
“Non ci sono problemi dottore, le auguro una migliore continuazione.”
“Credo sia difficile il contrario… ma non impossibile… saluti.”
Giuseppe Collavini era il vice comandante della caserma dei pompieri di Opicina e spesso i due si erano trovati nello stesso posto per lo stesso motivo. Magari per estrarre una persona da una macchina accartocciata dopo un incidente o solamente per tirare giù da un tetto un rumoroso gatto in amore.

parte 18.0 secondo atto



SECONDO ATTO

Erano le quattro e venticinque di una notte oramai stanca e di una mattina non ancora rivelata. Le colline che accompagnavano un’autostrada deserta che dal confine italiano di Fernetti proseguiva in direzione della capitale Slovena prendevano forma. Natasha si trovava a guidare la sua Alfa Mito nera, ben attenta a non oltrepassare i limiti di velocità, anche se sapeva bene che mai a quell’ora autopattuglie della polizia slovena si trovassero su quel tratto che lei percorreva con una certa assiduità. Nei pressi di Lubiana, la macchina nera imbocco l’uscita per un paesino di nome Vhrnika, per poi fermarsi in una piazza come da istruzioni ricevute via sms. Doveva incontrare un uomo, sempre lo stesso, ma in luoghi sempre diversi che le venivano forniti all’ultimo momento. Sì fermò e spense le luci, era puntuale, l’uomo non c’era. Aspettò dentro l’auto,  assieme a mille pensieri ed ancora più dubbi. Era stufa, di tutto e di tutti. O quasi tutti. Il suo volto non riusciva a celare il turbamento.
Dopo dieci minuti arrivò una Bmw, scese un uomo di media corporatura apparentemente distinto, portava un cappotto grigio, un cappello grigio e guanti di pelle nera. Apri il bagagliaio ne estrasse una grossa valigia rigida tipo Sansonite, Natasha scese dall’auto e aprì il portellone della sua Mito, l’uomo ci infilò la valigia.
“Buongiorno Natasha”
“Buongiorno signor Igor”
“Tutto bene Natasha? Ti vedo stanca…”
“No signor Igor, tutto bene”
Il tale signor Igor la guardò negli occhi, sfoderando un sorriso rassicurante che ricordava un politico italiano dalla faccia che sembra una maschera.
“Meglio così, d’altra parte sei la puttana più ricca dell’Ucraina, di cosa ti puoi lamentare?”
Natasha non rispose, la verità fa male.
“Ah, l’altro ieri ho visto la tua sorellina, sta crescendo bene, così come il suo seno, sta diventando proprio un bel bocconcino.”
“Non la guardare neanche, stalle lontano o…”
“Shhhh… fai la brava cagnetta… Ora vai a fare quello che sai. E non preoccuparti. Non serve.”
Natasha sapeva che doveva obbedire: montò in macchina e prese la strada del ritorno.
L’uomo la guardò impassibile andarsene, poi estrasse dal suo cappotto un telefonino, fece velocemente un numero, rispose una segreteria telefonica:
“la corriera ha esaurito la benzina.”
Poi spense il cellulare estraendo batteria e sim, li buttò in un cassonetto adiacente.
Natasha si stava asciugando le lacrime mentre guidava spingendo sull’acceleratore e portando la macchina attorno ai 180 chilometri l’ora. Incurante di quei limiti che fino a poco fa stava perfettamente attenta, come se voleva essere fermata. Prese il cellulare fece il numero della persona di cui era innamorata. Pensò ai consigli dati appena qualche giorno prima alla sua collega Carla e pensò quanto sia facile dispensare pillole di verità e quanto sia difficile ingoiarle.
Dall’altro capo una voce di donna.
“Pronto?”
“Tesoro, sono io…”
“Natasha… che ora è? Che cosa succede?”
“Volevo sentire la tua voce, mi manchi…”
“Sono le cinque meno dieci, non mi chiami solo per sentire la mia voce…mi fai preoccupare.”
Devi preoccuparti.
“Tutto bene se ti vedo… “
“Allora dammi il tempo di indossare qualcosa. Fra trenta minuti al solito posticino nostro, ok?”
Non perdere tempo a vestirti…
“Sì tesoro, va benissimo… ti amo…”
“ A fra poco zuccherino mio”

Arrivò per prima una pattuglia della polizia del reparto di Opicina (un borgo triestino sull’altipiano carsico vicino il valico di Fernetti). Dalla volante scesero tre agenti, dall’altra parte tre ciclisti, un’Alfa Mito nera e un cadavere.