martedì 24 luglio 2012

parte 6.1


Terminata la scuola media, causa la mia poca propensione allo studio ben sottolineata fra l’altro dai risultati scolastici, decisi di iscrivermi ad una scuola professionale. Il mio estro creativo mi portò a scegliere la scuola per cuochi. Due anni e diventi Chef de cuisine:  era la promessa.
Frequentai l’istituto convittuale a Lignano Riviera. D’estate lavoravo presso un ristorante della località di mare. Frequentatissimo da tanta bella gente, soprattutto da teutoniche donne abbronzate vestite da poco più di succinti bikini. Che io vedevo solamente dalla cucina. Lavorare in un ristorante in una località turistica, significa sciropparsi turni giornalieri di almeno quattordici ore. In alta stagione ben di più. Lavorai ed imparai molto in quei due anni. Peccato che la remunerazione non fosse proporzionata all’impegno ed alle ore lavorate.
Finita la seconda stagione, e finita anche la scuola, mi presi un periodo sabbatico. Avevo bisogno di capire cosa volevo fare da grande. Nel frattempo vivevo di piccoli e disparati lavori.
Arrivò un occasione, prendere un aereo ed imbarcarmi come aiuto cuoco su una nave da crociera nel mar dei caraibi. Le liti con i miei genitori ed i pochi soldi a disposizione mi fecero decidere per quel passo importante. Un passo per un mondo che non conoscevo. Valigia con l’indispensabile e presi il volo. Letteralmente.
Salii a bordo di una nave di una società statunitense, piena di turisti nordamericani. Con un equipaggio per la maggior parte di origine filippina. Ed una rotta apparentemente scritta da Capitan Sparrow: le perle dei caraibi. Quali queste fossero non era chiaro: il depliant pubblicitario prometteva morbide spiagge di sabbia bianca corallina, un quieto mare con tonalità tra il zaffiro e lo smeraldo, assieme a ondulate e sinuose bellezze locali dal color ebano.
Non avevo mai visto una nave da crociera, o meglio, non ci ero mai salito su. Sono enormi e maestose. La prima cosa che ti chiedi e come possa stare a galla una città. Credo sia tutto merito di Archimede ed al suo principio. Pensai che sarebbe diventato ricco se avesse potuto brevettarlo. Ma esisteva un Ufficio brevetti nell’antica Grecia? Probabilmente avrei dovuto stare più attento durante le lezioni di storia.
Lo diceva anche la Staiano, quella despota che insegnava storia e geografia alle medie: “Novembre sveglia! Nonostante il tuo cognome non è tempo di letargo!”
Spesso, nell’ illusorio tentativo di apparire simpatica ironizzava: “ Fuori dalla porta metterò un cartello con scritto: Non so, non l’ho visto, ma se c’ero sicuramente dormivo.”

Ieri tutto bene.

Quando va tutto bene ho paura di morire. Direi il panico.
Mi prende una forma di panico quando vado a letto e non mi addormento subito, pensando che prima o poi non ci sarò più. A volte ripetutamente grido piano "non è possibile". Mi alzo un attimo, bevo un goccio di acqua e poi passa.
Quanto meno non ci penso più.
Succede solo quando sto bene, quando non ho pensieri peggiori; dove la morte potrebbe sembrare perfino la soluzione.

mercoledì 18 luglio 2012

parte 5.4


L’indomani mi presentai da solo al club. Mi sedetti al posto del giorno prima. Miss Downey prese nuovamente me per l’esibizione. Questa volta non ero imbarazzato. Solamente eccitato. Come mai lo ero stato. Finimmo nuovamente nel privè, questa volta Miss Downey si tolse la bionda parrucca facendomi conoscere Carla: non le giudicavo, per certi versi non erano differenti da me.
Come cresceva la mia frequenza al Venezuelas e del suo privè, proporzionalmente si decurtava il mio portafoglio. Facendo aumentare la mia voglia di lei. 
Era come una droga, ne ero dipendente, mi era entrata nell’anima. E sentivo la necessità che mi entrasse nei pantaloni.

la cornice sul mobile


Quella cornice sul mobile conteneva una foto di lei poco più che quindicenne. Me la ricordavo bene. E me la sognavo meglio. Non so se l’ho prima conosciuta o prima sognata. Ora quel frutto acerbo era diventato un radioso frutto maturo. Non saprò mai cosa mi sono perso tanti anni fa, ma so che lei adesso era vicino a me.
Mentre sovvenivo il passato, lei, con un preciso movimento inatteso, tolse il reggiseno perlato, lasciando libera di essere una eterogenea pelle ambrata e dando credito a tutte le mie migliori aspettative.
Fu come una rivincita contro il tempo e le sue cose. Ma era solo una vittoria di Pirro. Sapevo che quella rivincita l'avrei pagata a caro prezzo. 

Storie e leggende, convinzioni e presunzioni per spiegare il significato della separazione ai figli. Parte prima (e forse ultima)



Posso anche aver bisogno di conferme, ma in realtà ne sono convinta davvero.. convinta di aver fatto la scelta giusta, per me sicuramente, ma anche per mia figlia.
A dispetto dei molti che, senza conoscere alcun trascorso e ancor meno le radici socio-culturali, possano essere convinti del trauma che una simile scelta provochi a una bambina, io ammetto le difficoltà a cui ho costretto la mia, ma sono anche certa che così le lascio un insegnamento davvero importante.
Se è vero che siamo figli di un'educazione e di una socialità soprattutto familiare, con la mia scelta ho insegnato a mia figlia che non bisogna scoraggiarci mai quando si riconosce di avere sbagliato. Che si può sempre cominciare da capo e che non bisogna abituarsi ai panni stretti della quotidiana insoddisfazione, ma che vale sempre la pena lottare per conquistare ciò che si desidera, o almeno che è lecito provarci..
Ho insegnato a mia figlia che deve credere nei valori in cui crede..
Che nulla è dovuto, che si deve lottare e che è naturale scegliere la via più semplice, purché sia quella che ci sembra più giusta...
che bisogna adoperarsi per trovare la soluzione, ma se davvero non esiste lasciando le cose come sono, allora non ci dobbiamo fermare davanti al muro che di solito è costruito dagli eventi esterni..
Le ho insegnato che anche se il mondo che la circonda si lamenta ma vive nell'accettazione, almeno le sue aspettative non debbano essere sconfitte dalla rassegnazione.
Sono convinta che è una grande lezione di vita e che la aiuterà a scegliere con consapevolezza quando si troverà davanti alla possibilità di accettare o meno un compromesso...
Se l'unica soluzione è cominciare da capo, le ho insegnato il coraggio.. (JJ)

parte 5.3


Non credevo alle coincidenze come segno di un destino scritto, queste sono solo il frutto amaro del caso e del caos che regnano meschinamente l’universo e le umane cose. Camminavo su un filo sottile, in bilico tra ciò che le coincidenze possono portare. Cadere era facile ed inevitabile, in fondo bastava un soffio. Il soffio del caos o il soffio di un angelo. Purtroppo gli angeli hanno perso le ali, o semplicemente non esistono. Ed il caos ti fa cadere sempre dalla parte sbagliata…

lunedì 16 luglio 2012

parte 5.2


Entrammo e ci accomodammo su bassi divanetti dal tessuto consumato. Ci chiedemmo che cosa avesse logorato così quella stoffa:
“ Il culo di quella nera che sta ballando.” Asserì Graziano, felice di distendersi su quel divanetto.
Su quello che in inglese viene chiamato Dance Floor, su un palo c’era una venere nera; credo di non aver mai visto un corpo così statuario come quello che si muoveva su quel freddo sostegno. Non così nero perlomeno.
La serata prese così una via diversa dal solito, non per forza migliore, ma sicuramente diversa.
Un nano incravattato presentava le meraviglie della casa. E le loro discutibili peculiarità.
Spesso queste meraviglie invitavano qualcuno del pubblico ad esibirsi con loro.
Una mora… svestita da poliziotta… invitò una delle poche ragazze presenti in sala. Quello che ne seguì ringalluzzì alquanto i miei amici. E me.
Dopo una pausa creata ad hoc per poter offrire da bere alle star del locale, e riempire le casse degli albanesi padroni di casa, ecco che fu il turno di Miss Downey.
Vestita da una bionda parrucca e da poco altro, salì sul palco. Ed entrò nella mia vita: anche se ancora non lo sapevo.
Dopo pochi minuti di esibizione e di bocche aperte per l’ammirazione, o per l’eccitamento, Miss Downey mi si avvicinò e senza dare possibilità di negazione mi portò con lei sul palco. Con il mio imbarazzo e l’evidente invidia dei restanti.
“Giò, Giò, Giò!”
Gridava un coro amico di ultrà.
Non ricordo il susseguirsi degli eventi, ma so che da lì a poco mi ritrovai in un privè. Con lei e la sola sua parrucca.
Non lo so perché, ma sentii subito qualcosa che potrei chiamare feeling, o perlomeno era qualcosa di nuovo, mai provato. C’era qualcosa che ci legava... E non mi riferisco delle manette che mi mise addosso.

mercoledì 11 luglio 2012

istruzioni 2.0

Tutti i post denominati "parte" seguiti da un due numeri intervallati da un punto (es. "parte 5.1") vanno letti in ordine numerico partendo da 1.1 (per capirci come gli articoli di  legge ed i suoi commi...). Se lo fate quello che ne esce è una storia, un romanzo. Naturalmente, se non lo fate, non vi perdete proprio niente.

parte 5.1


Conobbi Carla nel più classico dei modi: pagando.
Ero da poco sbarcato. Lavoravo come secondo chef presso una nave da crociera che gira le isole del mar dei caraibi. Tornai a casa con un volo Charter  che partiva da Piarco International l’Aeroporto di Trinidad e Tobago. Scalo a Fiumicino, poi un aereo nazionale fino a Ronchi dei Legionari.
Ad ogni rientro, circa ogni 6 mesi, gli amici mi organizzavano una serata. Se la partenza dava sempre quell’emozione dell’avventura ed in un certo modo dell’ignoto, il ritorno dava il gusto della sicurezza. Era bello e rassicurante ritrovare ciò che si aveva lasciato: la propria casa, il proprio letto; le vie e le luci della solita ed amata mia vecchia città. Era bello e confortante riassaporare il calore degli amici. Quelli veri.
Ore 21.30, piazza della Borsa. Luogo ed orario classico, da anni. Ci sono tutti, gli amici di sempre. Un’amicizia iniziata e mai perduta dalle scuole medie: Graziano  “Graz the Ganz”; Paolo “John Stravolto” chiamato così per somiglianze evidenti; Lorenzo  “el biflon”, in quanto era quello che passava i compiti a tutti; Mauro“clanfa”, noto personaggio attivo nel sociale e nel goliardico; Carlo o meglio solo Carletto, era la mascotte del gruppo, almeno, noi lo consideravamo così, ma sapevamo bene che lui si sarebbe offeso se solo immaginava che noi lo pensavamo. Da un po’di tempo mancava Luca, era troppo occupato a curare il suo fisico in palestra. E le ventenni che la frequentavano.
Il proposito delle serate era ripetitivo. E mai noioso: Sesso ed alcool.
Iniziava così l’ennesimo giro, l’ennesima serata, che tra solite battute,  vecchi ricordi e tanta nostalgia dei bei tempi andati (chissà perché sempre migliori), portava sonante lucidità ai baristi. E nebbia e torpore alle nostre menti.
“Come sempre qui si finisce solo col bere e non si tromba.” Disse laconico Graziano, battuta che tra l’altro era come un suo disco fisso ad ogni uscita.
Se l’alcool era una sicurezza al contrario donne e sesso erano un optional. Di cui spesso dovevamo fare a meno. Nel mio caso pensai che senza della divisa da chef il mio fascino veniva a mancare. Ma forse erano solo situazioni diverse: qui le donne non erano mogli annoiate in cerca di ipotetiche rivalse in posti e con persone che non avrebbero più rivisto.
“ Sempre la stessa battuta, mio caro, è vecchia. Sarebbe ora che la smettessi e ti daresti più da fare. Ti assicuro che se tu tirassi fuori una buona idea, noi l’appoggeremmo.” Rispose Mauro.
Ero inconsapevole di ciò che sarebbe di lì a poco successo. Di come quella battuta avrebbe influito sulla mia vita. Nel bene e nel male.
“Bene Mauro, così provochi il mio ego. Allora io, Graz the Ganz, vi prometto solennemente che questa sera vi faccio trombare! …Basta che paghiate.”
“Seguitemi, banda di sotto caporali!” Aggiunse con tono melodrammatico.
Si diresse verso vie più buie, meno affollate. Vie dove capita sovente che qualche donna ti venga vicino chiedendoti cosa ti piaccia fare. O che ti metta al corrente di prezzi e prestazioni. Promettendo di essere più brava della moglie o della fidanzata. E sicuramente meno esigente.
Una volta, seguendo facili sogni, dettati da incontrollabili bisogni, proprio da quelle parti Carletto si ritrovò con una sorpresa grande e grossa in mano. “ A big surprise!”, si divertiva a dire Graziano, ricordando a tutti l’inconveniente dell’incontro con una splendida, o splendido, transessuale.
Arrivammo sotto le insegne rosse lampeggianti di un locale di Lap Dance, il Venezuelas. All’ingresso due tipi, due classici buttafuori. Grossi, brutti e sicuramente cattivi.
Chissà perché i buttafuori devono essere sempre così? Forse per l’infantile retaggio che bisogna aver paura delle persone brutte e cattive?
Domanda di cui non sentivo il bisogno di conoscere la risposta. Assolutamente.
“Ognun per se e Dio per tutti” esclamò Lorenzo, riferendosi a chi pagava il biglietto d’ingresso;
comprensivo della prima consumazione, rigorosamente solo per il cliente. Per le ballerine bisognava pagare un extra.

viali scolorati

Viali senza alberi e gradinate senza scalini,
albe senza luce e tramonti senza sole;
negozi pieni di cose vuote e commesse colorate dall'anima grigia.
Amari ricordi del dolce sorriso di una bocca di rosa mai stata mia.

martedì 10 luglio 2012

parte 4.3


Tacos era dei tre albanesi, quello che si occupava di “assumere” le ballerine del Venezuelas, il suo vero nome non lo conosceva nessuno. Il soprannome derivava dal suo cibo preferito.
“Impara l’arte e mettila da parte, impara il mestiere e fatti sempre offrire tanto da bere!” Era invece la sua battuta preferita: veniva detta a tutte le ragazze che da paesi balcanici e baltici arrivavano in Italia in cerca di una vita migliore, vantando lauree e titoli conseguiti nei loro rispettivi paesi. Ma alla fine difficoltà e crisi spesso le portavano a chiedere a lui un ingaggio. Qualora Tacos notasse qualche perplessità nella ragazza che di fronte a lui cercava un impiego nel suo locale notturno, aggiungeva: “ Carissima, fuori dalla porta ho la fila di… manovalanza… disposta a tutto, quindi o fai quello dico io o ritorna in quella topaia da dove sei arrivata!”
Tacos era piccolo e tarchiato: altezza un metro e sessantacinque per 85 chili di muscoli. Nonostante guardasse tutti verso l’alto la sua espressione era di superiorità. Questa era data dalla sua esperienza in combattimenti di Krav Maga. O lotta di strada. Un sistema di combattimento nato in Israele per mano del comandante dell'esercito, Imi Lichtenfeld.
Un mix di tecniche dirette, pochi balletti: pugni, leve articolari, calci e proiezioni portate a zone vitali del corpo e che potenzialmente procurano danni irreversibili. O meglio, la neutralizzazione definitiva dell’avversario. Tacos le conosceva tutte. E bene.

parte 4.2


Una laurea in psicologia, un lavoro da telefonista. Carla di giorno vendeva polizze assicurative.
Una cuffia ed un microfono la mettevano in contatto con il mondo. E con il nulla. Erano nomi senza un viso, saluti senza un abbraccio, problemi esistenziali senza una soluzione.
Carla era alta e magra, capelli scuri e corti, portava gonne lunghe e scarpe basse assieme a camice che non permettevano al suo seno di essere. Con le sue colleghe parlava poco e socializzava meno. Di notte Carla però non era così. Di notte si trasformava. La dottoressa Carla, diveniva Miss Downey. Si esibiva in un locale notturno, il Venezuelas. Locale gestito da tre albanesi che nonostante i vestiti gessati di Armani trasudavano malavita cresciuta nei sobborghi di Tirana. Miss Downey sul palco portava una appariscente parrucca bionda, sapeva muoversi sinuosamente e torbidamente. Era la più applaudita. Era la più richiesta anche nei privè, piccole stanze arredate da un divanetto di pelle e da discutibili quadri di nudo femminile divisi fra di loro da una tenda semitrasparente. Una parrucca, tacchi 12 e collant autoreggenti la mettevano a contatto con quella parte del  mondo apparentemente opposto a quello suo diurno. Erano visi senza un nome, abbracci senza un saluto ed una soluzione, temporanea, a problemi esistenziali.

parte 4.1


L’infanzia di Carla non era diversa da tante sue coetanee. Una madre che desiderava il meglio per la piccola, e ciò che lei non era stata capace di essere. Era sempre su un piedistallo alto ed intoccabile. Non esitava di metterla in mostra ad ogni occasione possibile: da sfilate di moda di vestiti per bambini a concorsi mascherati in cui lei era vestita da geisha, da coniglietta, da strega, con tanto di trucchi e di accessori degni di donne mature disinibite. Lo  scopo ultimo era quello di esibire la morbida pelle e le asciutte forme velate sotto la piccola mascherina.
Il padre era per lo più occupato a farsi agli affari suoi, indifferentemente quali fossero;  escludendo parentesi fatte di attenzioni che mal si addicono ad un infante. Fin dove arrivassero queste attenzioni Carla non lo ammise mai. E non lo ammise mai nemmeno sua madre.
Carla consegui tutti gli studi con sufficienza, fino all’università. Laurea in psicologia, voto finale novantatre. Bastava finire. E fare contenta la mamma. Inoltre non era la professione che intendeva intraprendere.
Poi il lavoro, uno qualsiasi: trovò posto presso un call center di una ruggente società di assicurazioni.

Non ti conosco...



Rinnegare qualcosa solo perché si è stati feriti, significa rinnegare se stessi, fare finta di non aver vissuto. Come dire non ero io, casomai qualcun altro...

Se hai voluto bene, amato, non puoi fare come se nulla prima fosse accaduto nulla. Se c'erano sentimento e amore come si fa a cancellarli? Certo a volte le situazioni portano a dover  passare oltre, guardare avanti, a non voltarsi, ma cancellare è un'altra cosa. E non intendo ciò solo in un rapporto di coppia, può essere applicabile anche un’amicizia importante, non dico vera, ma quantomeno meritevole di essere chiamata tale.

La vita già è breve e spesso con molti rimpianti, se poi ci mettiamo anche a rinnegarla potremmo mai dire di aver vissuto degnamente?