lunedì 25 giugno 2012

parte 2.3


Mi chiamò in disparte un medico. Entrammo in una saletta austera, un tavolo due sedie ed un lettino, non si sedette, io nemmeno. Era giovane e dai movimenti impacciati, sembrava stanco e trasudava la sua voglia di essere da un’altra parte. Capii che non aveva buone notizie. Stringato mi disse che Carla non aveva subito danni permanenti ma, asserì, che i colpi ripetuti ricevuti in pancia hanno fatto sì che il bambino non ce l’avesse fatta ed è stato d’obbligo un aborto d’urgenza. Mi salutò dispiacendosi ed asserendo che aveva fatto tutto il possibile. Non riuscì a dire una parola, ero impietrito, dovevo metabolizzare troppe cose, restai per un po’ immobile in quella stanza che sembrava volesse schiacciarmi. Come può essere un magnaccia padrone e tiranno di tre vite fino ad ucciderne una?
Mi immaginai la scena in cui Tacos picchiava Carla. Ed il mio bambino. Mi chiesi quanto lui potesse sapere. E quanto avesse appositamente piazzato i colpi in pancia. Mi montò una rabbia funesta, ero furibondo, non so con chi di più: con Carla che aveva dentro di se una vita che era anche mia e nulla mi aveva detto, o con chi tutto aveva tolto a tutti?
Carla stava dormendo, le luci al neon erano di colpo diventate accecanti, l’odore acre dei disinfettanti mi diedero il voltastomaco, decisi che era meglio andarmene.
Avevo bisogno di conforto. Non sapevo chi potesse darmelo. Credo che siano questi i momenti in cui le persone si aggrappano alla fede, ad una qualunque. Così anch’io, mi aggrappai ad una: a quella del Dio Bacco. O perlomeno a ciò che lui portò in dono agli umani.

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