lunedì 18 giugno 2012

parte 1.1


Ecco cosa voleva dire innamorarsi di una puttana. Ero steso a terra in un angolo buio del ghetto. Strano posto questo, pieno di contraddizioni, ci sono vie fitte di bar e di persone in cerca di vita e di avventure  affiancate da altre vuote, così sospese nel tempo che sembra ancora di sentire i passi pesanti dei nazisti in cerca degli ebrei. Io ero in una di quelle ed un Panzer mi era appena passato sopra. Non capivo se il dolore allo stomaco che mi aveva messo KO era dovuto ai vari bourbon e tequila che avevo dato credito per scacciare ingombranti pensieri o a quei due calci assestati con maestria uno al fegato ed uno alla bocca dello stomaco. La faccia mi sanguinava. Doveva essere la conferma che quel bastardo di magnaccia mi avesse bastonato a dovere. Credo di aver piazzato anch’io un paio di colpi buoni, insegnatomi da un vecchio pugile professionista amico d’un tempo antico (anche se sono convinto che lui gli avrebbe assestati decisamente meglio). Di fatto, quello steso ero io. Il bastardo se ne era andato dicendomi qualcosa del tipo la prossima volta andrà anche peggio…
     Ero sfigurato nel volto. E deturpato nell’anima. Lei, Carla la ballerina, la ballerina di lap del Venezuelas, era nella mia testa. Non usciva. Non uscivano nemmeno le sue parole, i suoi sguardi, le sue mani su di me. Non era solo sesso. Almeno sicuramente non per me. E non potevo credere che ora potesse dire e fare le stesse cose con qualcun altro. O forse solo non lo volevo credere. No, non poteva dire a chicchessia  che era l’uomo più bello del mondo, non poteva stringere un altro come stringeva me, non poteva dire ad un altro che era l’uomo perfetto. E l’amante ideale. No. Non poteva. E non doveva. Cazzo!

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