
Ecco cosa voleva dire innamorarsi
di una puttana. Ero steso a terra in un angolo buio del ghetto. Strano posto
questo, pieno di contraddizioni, ci sono vie fitte di bar e di persone in cerca
di vita e di avventure affiancate da
altre vuote, così sospese nel tempo che sembra ancora di sentire i passi
pesanti dei nazisti in cerca degli ebrei. Io ero in una di quelle ed un Panzer
mi era appena passato sopra. Non capivo se il dolore allo stomaco che mi aveva
messo KO era dovuto ai vari bourbon e tequila che avevo dato credito per
scacciare ingombranti pensieri o a quei due calci assestati con maestria uno al fegato ed uno alla
bocca dello stomaco. La faccia mi sanguinava. Doveva essere la conferma che quel
bastardo di magnaccia mi avesse bastonato a dovere. Credo di aver piazzato
anch’io un paio di colpi buoni, insegnatomi da un vecchio pugile professionista
amico d’un tempo antico (anche se sono convinto che lui gli avrebbe assestati
decisamente meglio). Di fatto, quello steso ero io. Il bastardo se ne era andato
dicendomi qualcosa del tipo la prossima volta andrà anche peggio…
Ero sfigurato nel volto. E deturpato nell’anima. Lei, Carla la
ballerina, la ballerina di lap del Venezuelas, era nella mia testa. Non usciva.
Non uscivano nemmeno le sue parole, i suoi sguardi, le sue mani su di me. Non
era solo sesso. Almeno sicuramente non per me. E non potevo credere che ora potesse
dire e fare le stesse cose con qualcun altro. O forse solo non lo volevo
credere. No, non poteva dire a chicchessia che era l’uomo più bello del mondo, non poteva
stringere un altro come stringeva me, non poteva dire ad un altro che era l’uomo
perfetto. E l’amante ideale. No. Non poteva. E non doveva. Cazzo!
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