martedì 26 giugno 2012
istruzioni per l'uso
Tutti i post "parte" seguiti da un due numeri intervallati da un punto (es. parte 2.1) vanno letti in ordine numerico partendo da 1.1 , in quanto si tratta di una storia in lavoro e l'utilizzo del doppio numero mi permette in corso d'opera approfondimenti eventuali.
lunedì 25 giugno 2012
parte 2.3
Mi chiamò in disparte un medico. Entrammo
in una saletta austera, un tavolo due sedie ed un lettino, non si sedette, io
nemmeno. Era giovane e dai movimenti impacciati, sembrava stanco e trasudava la
sua voglia di essere da un’altra parte. Capii che non aveva buone notizie. Stringato
mi disse che Carla non aveva subito danni permanenti ma, asserì, che i colpi
ripetuti ricevuti in pancia hanno fatto sì che il bambino non ce l’avesse fatta
ed è stato d’obbligo un aborto d’urgenza. Mi salutò dispiacendosi ed asserendo
che aveva fatto tutto il possibile. Non riuscì a dire una parola, ero
impietrito, dovevo metabolizzare troppe cose, restai per un po’ immobile in
quella stanza che sembrava volesse schiacciarmi. Come può essere un magnaccia padrone
e tiranno di tre vite fino ad ucciderne una?

Carla stava dormendo, le luci al
neon erano di colpo diventate accecanti, l’odore acre dei disinfettanti mi
diedero il voltastomaco, decisi che era meglio andarmene.
Avevo bisogno di conforto. Non sapevo
chi potesse darmelo. Credo che siano questi i momenti in cui le persone si
aggrappano alla fede, ad una qualunque. Così anch’io, mi aggrappai ad una: a quella del Dio Bacco. O perlomeno a ciò che lui portò in dono agli umani.
parte2.2
Mi ero appena finito di asciugare i
cappelli che squillò il cellulare. Pensavo che fosse Carla. O lo speravo.
Numero sconosciuto. Risposi. Una signorina mi confidava che era un’infermiera
dell’ospedale e che avrei dovuto passare presso il loro reparto prima possibile
anche se non era urgente. Era evidente che le due cose erano in disaccordo. Doveva
essere solo un modo gentile per non farmi preoccupare. Presi lo scooter e mi
precipitai là dove mi richiedevano.
“Sono Giovanni Novembre, mi avete
poc’anzi…”
Non riuscii a finire la frase.
“Si, venga con me.”
Percorremmo tutto il corridoio, che
in quel momento doveva essere lungo almeno qualche decina di chilometri, tanto
mi sembrava interminabile. Entrammo in una stanza con due letti, di cui solo
uno era occupato. Mi ci volle una frazione di tempo apparentemente infinita per
capire che la persona tra quelle bende e quei tubicini di plastica era Carla.
Capii immediatamente: Tacos, il suo
magnaccia, aveva riservato a lei lo stesso trattamento che aveva fatto a me. Ma
a Carla andò decisamente peggio.
“Amore…”
Si rivolse a me con una voce
fievole. Gli occhi mi s’ inumidirono. Corsi al suo fianco. La mia mano prendendole
la sua rispose che c’ero. I cattivi pensieri della sera prima se n’erano
andati.
“E’ stato Tacos? Vero?”
“Non pensarci”
“Questa volta è troppo” risposi guardando verso la finestra come per
cercare un arma.
“Questa volta lo uccido quel figlio
di puttana”
Carla scoppiò a piangere.
Quell’ultima parola per la prima volta le fece male.
Ricordo che altre volte, in
migliori situazioni, le piaceva che alternassi parole dolci a schifezze
immonde, così come le piaceva che le accarezzassi i capelli e che poi glieli
tirassi.
Le versai dell’acqua in un
bicchiere e le baciai la fronte.
Si calmò.
L’acqua a volte fa miracoli.
Mi guardò intensamente. E mi
strinse forte la mano. A volte le parole sono inutili e fuorvianti. Il suo
sguardo era pieno di belle parole. I suoi occhi mi spogliavano.
Il fiele che portavo dentro si
trasformò in vaniglia.
Sbaglia chi crede che il mondo giri
su di un asse…
parte 2.1
Mi svegliai il tardo pomeriggio, i
vestiti avevano un odore acido. Necessitavamo tutti di tanta acqua. E di altrettanto
sapone. Barcollante ed intorpidito entrai ancora vestito nella doccia. Lavai
vestiti, ferite, pensieri e rancori. Cercando invano, di sciacquare i sentimenti.
Mentre mi insaponavo parlavo con
lei, o da solo. Non lo so. Davo i primi segni di squilibrio. O forse erano solo
gli ultimi. Prima della pazzia.
giovedì 21 giugno 2012
Tempo invano
Non avevo voglia di tivù e pestavo tasti sul notebook alla ricerca di qualche vecchio brano musicale, di quelli che hanno un significato, non per forza legati ad un momento, ma anche ad uno stato di essere, ad un tempo fuggito, o solamente sfuggito. Sicuramente troppo presto e lasciando un senso di poco.
La musica è evocativa, permette di riassaporare momenti e vibrazioni passati come se fossero ancora presenti, come se ascoltandola e chiudendo gli occhi, si potesse essere padroni dello spazio tempo.
Io cercavo invano di cambiare quel momento in cui lei poco più che bambina, di fronte a casa sua, non volle dirmi di sì.
Ma se c'è qualcosa contro cui la lotta è impari, è quella contro il tempo.

Io cercavo invano di cambiare quel momento in cui lei poco più che bambina, di fronte a casa sua, non volle dirmi di sì.
Ma se c'è qualcosa contro cui la lotta è impari, è quella contro il tempo.
lunedì 18 giugno 2012
parte 1.3
Si trattava di Graz the Ganz, vecchio
amico, eclettica persona e poliedrico professionista. Uno di quelli capace di
fare bene qualsiasi cosa. So che aveva iniziato come elettricista, per poi fare
l’impresario edile, essere viticoltore ed apicoltore a tempo perso, aprire una
attività alberghiera per poi continuare con un centro Welness. Probabilmente aveva
fatto ancora qualcosa. Sicuramente era anche un grande tombeur de femme; non per niente vicino a lui sedevano due splendidi
esemplari di giovani femmine; un quadretto invidiabile: lui moro, loro una
bionda ed una rossa. Ognuno statuario, a suo modo.
“Che ci fai qui in questo posto di
perdizione Gio?”
“Sono di passaggio”
“Sembra che di passaggio ti sia montato
sopra un Suv, amico mio.”
Avrei risposto che in realtà era un
Panzer. Ma avrei dovuto dare spiegazioni che non intendevo fornire.
“Mangiato pesante”
“Allora ti serve un buon digestivo”
Si girò verso il banco ordinando un
Jagermeister.
Bevuto in un solo sorso l’amaro che
ricorda un gran cornuto sostenetti che era il mio preferito ( e che mi si
addiceva perfettamente).
Affermai che il secondo giro era di
mio compito.
Persi il conto dei secondi giri e
delle risate fatte alle battute di Graz; non so fossero più per il mio diletto
o se fossero per piacere ed il piacere delle due donne diversamente colorate.
Ma uguali negli intenti.
Lasciai Graz alle promesse
ammalianti delle due signorine. Arrivai a casa con un taxi, non ero nemmeno
riuscito a togliermi gli stivali che caddi alle lusinghe del letto. Morfeo mi
portò in dono Carla. O solo la mia nostalgia di lei: ero dietro al suo corpo
svelato, le sue mani presero le mie ed adagiandole sul suo seno scivolarono
lievi sui miei fianchi…
parte 1.2
Passi e risate stavano giungendo. Era tempo di rialzarmi. Mi sistemai alla meno peggio ed entrai nel primo bar: Taverna da Rino. Dovevo sciacquarmi il viso e vomitare. Aprii la porta del locale, educati anfibi scamosciati si contrapponevano a vertiginosi tacchi. Ho sempre pensato che l’altezza del tacco fosse una misura dell’invidia del pene. Scrutai sguardi e sorrisi delle signore dall’altezza surrogata per avere una scontata conferma. Arrivai al bagno giusto in tempo. Fortuna non c’era nessuno. I conati di vomito mi presero con la stessa violenza dei montanti appena ricevuti. Mi lavai il viso: la faccia che vedevo non era quella che avevo all’ultima scazzottata. Erano passati molti anni e sopraggiunti ancora più dubbi. Anche se la voglia di rivalsa era la stessa. Venni fuori dal bagno dirigendomi verso l’uscita e facendomi varco tra facce arrapate di tizi idioti e visi incipriati di donne in cerca di conferme: che fossero belle ed attraenti. O perlomeno desiderabili.
Una mano mi toccò la spalla. Per un attimo sperai che l’ora della vendetta fosse già arrivata. Con energia ritrovata mi girai, avevo un destro già carico, ma l’uomo davanti a me era un amico.
parte 1.1

Ero sfigurato nel volto. E deturpato nell’anima. Lei, Carla la
ballerina, la ballerina di lap del Venezuelas, era nella mia testa. Non usciva.
Non uscivano nemmeno le sue parole, i suoi sguardi, le sue mani su di me. Non
era solo sesso. Almeno sicuramente non per me. E non potevo credere che ora potesse
dire e fare le stesse cose con qualcun altro. O forse solo non lo volevo
credere. No, non poteva dire a chicchessia che era l’uomo più bello del mondo, non poteva
stringere un altro come stringeva me, non poteva dire ad un altro che era l’uomo
perfetto. E l’amante ideale. No. Non poteva. E non doveva. Cazzo!
Il cielo in una stanza
Mi immagino come sarai vestita
e ricordo come sei nuda.
Com'è zuccherina e vellutata la tua pelle
ed acerbo il tuo seno.
Mi immagino cosa faremo.
E so cosa toccheremo.
e ricordo come sei nuda.
Com'è zuccherina e vellutata la tua pelle
ed acerbo il tuo seno.
Mi immagino cosa faremo.
E so cosa toccheremo.
mercoledì 13 giugno 2012
Aspettami
Ora corro,
non so verso dove,
non so per quanto tempo,
non so come,
ma so che arriverò.
Tu aspettami.
Bianchi veli
In quel gioco malizioso fatto ad uso di quegli occhi che dai divanetti del night potevano solo guardare, l'aiutai a togliere le sue candide vesti lasciando posto alla sua pelle, che, nera come il peccato, si prendeva gioco e vincita da ciò che convenzionalmente appare come puro ed immacolato: il bianco. Come il male contro il bene. O solamente come i desideri reconditi che, solo in quel posto ai confini della civiltà, trionfano contro un ipocrita perbenismo.
cinque secondi
Mi manca. Mi manca ad ogni respiro, su ogni centimetro della mia pelle, in ogni strada che percorro. Il calar del sole porta l'insostenibile pensiero di lei. E' dentro la mia testa, prepotentemente; vorrei un cavatappi, uno sturalavandini, un trapano. O un whiskey, o qualsiasi liquido che prometta per cinque secondi un porto sicuro, un attracco via dalla tempesta, via dalla bufera che ha scatenato in me. Un ormeggio senza di lei, senza le sue parole, senza i suoi occhi. E senza il suo seno. Ma l'alcool porta le stesse vane promesse fatte in qualsiasi porto dai marinai.
Chi?
Lei non c'era.
O non è mai esistita.
Era solo il mio riflesso nel suo sguardo.
Quello che volevo vedere.
Quello che volevo sentire.
Ora la vedo con altri occhi.
Non è lei quella che mi diceva ti amo.
Non è lei quella che mi faceva sentire Dio.
Ma allora perchè soffro per nessuno?
Chi mi manca adesso da morire?
Scelte

di guardarsi negli occhi, per leggersi dentro..
di vedere il fondo dell'anima.. e non vomitarlo..
di sentire le urla del cuore.. e saperle ascoltare
C'è chi ha la forza
di lasciare parlare,
di ascoltare e non soffocare,
di decidere...
C'è chi ha la volontà
di gratificare la gioia
di affrontare la vita
di rinunciare a morire
.. è questione di scelte..
..come smettere di fumare (JJ)
Questione di pelle
Ho voglia di mare e di sole. Voglio sentirmi accarezzare dal
vento caldo e avvolgere dall’acqua salata. Desidero tuffarmi, mi piace sentire
il mio corpo quando irruento entra nel mare, percepire la sua fresca accoglienza.
Adoro nuotare sotto, isolarmi dalla superficie e dalla superficialità, dimenticare
di respirare cercando di dimenticare lei, un’ultima bracciata poi uscirò… no
ancora un'altra ed un’altra ancora… poi fuori, respirare forte, in debito di ossigeno.
martedì 12 giugno 2012
Anime gemelle
siamo anime gemelle... lo sento..
non ci accontentiamo della quotidianità... la normalità toglie il respiro..
preferiamo vivere.. anche se significa sanguinare.. (JJ)
non ci accontentiamo della quotidianità... la normalità toglie il respiro..
preferiamo vivere.. anche se significa sanguinare.. (JJ)
in attesa
Non ho più nulla da offrire, mi è stato rubato il cuore ed ho venduto
l'anima al diavolo.
Un posto all'inferno porta da tempo il mio nome. Intanto, nell'attesa dell'oblio, cerco di rubare piccoli attimi di eternità.
Un posto all'inferno porta da tempo il mio nome. Intanto, nell'attesa dell'oblio, cerco di rubare piccoli attimi di eternità.
foto del profilo
E' davanti a me, indossa una canottiera nera sotto la quale i seni sono liberi di essere e di lasciarsi immaginare, le spalle nude ed il sorriso aggraziato parlano di lei. Mentre i suoi occhi mediterranei chiedono risposte. O forse solo conferme...
Panchina
Si sedette davanti a me. Nonostante un abbigliamento da
barbone portava un’espressione da intellettuale, forse, data da un paio di
occhialini da vista tondi stile John Lennon. Aprì un sacchetto di nylon con
dentro alcune noci ed una improbabile bibita che sembrava passata di pomodoro alquanto
annacquata. Era il suo pranzo.
Provavo vergogna. O paura… Credo tutte e due.

Mc... eyes.
La vidi per caso, nel caos di una paninoteca
americana, lei era seduta quasi davanti a me, era vestita di quella dignità che
ha una madre che antepone a se stessa i propri figli. Le tre bambine che stavano
con lei erano sicuramente le sue figlie, differenti tutte nei tratti, ma
portanti una caratteristica che le conferivano a pieno titolo il grado di una
parentela stretta con la donna accanto a loro: portavano tutte e tre gli occhi
del mare della madre.
Mare di un azzurro profondo, dentro nei
quali annegare era una promessa che facevano a chiunque si fosse soffermato a
guardarli.
lunedì 11 giugno 2012
La città della bora
Io sto bene, il lavoro procede, viaggio molto e conosco gente.
Ma come ritorno nella mia città una sensazione di nostalgia mi pervade. Così succede che lascio sempre una finestra aperta, non si sa mai chi può portare il vento.
In fondo siamo a Trieste, la città della bora.
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