martedì 22 ottobre 2013
lunedì 2 settembre 2013
lunedì 27 maggio 2013
parte 21.2
Dirigendomi verso casa di Carla mi
chiedevo perché lo facevo, forse glielo dovevo? Fra noi era tutto finito, ma in
fondo le volevo bene ancora, ci siamo amati, non potevo rinnegare ciò che avevo
provato e quindi non potevo far finire tutto nella totale indifferenza.
Eravamo stati l’uno la metà uno
dell’altra. Mi piaceva questa definizione, e la sentivo quanto mai vera e mia.
Cerchiamo
la nostra metà anche per tutta la vita, è la meta del nostro viaggio sulla
terra.
Non sono un credente nel senso
strettamente religioso, ma credo nello spirito, magari strettamente legato al
fisico, in ognuno di noi c’è una spiritualità, che poi ognuno gli dà il nome
che preferisce. Secondo me, la metà che cerchiamo non è un qualsiasi partner, o
moglie, o amante è proprio la meta che ci manca, la parte che ci completa. E’
come se alla nascita qualcosa di noi si fosse scissa e finita chissà dove. Noi
la cerchiamo, la dobbiamo trovare, ma deve essere quella, non una qualsiasi.
Come due pezzi di un puzzle.
Altrimenti non saremo mai completi.
Né contenti.
Io l’avevo trovata e poi perduta.
Porcaccia
la miseriaccia…
Stavo per attraversare la strada
senza guardare, distratto dai miei pensieri pseudo-neuro-psico-filosofici che un autobus mi
sfiorò il naso di pochi centimetri. Forse anche qualche cosina di meno: dovevo
smetterla di farmi pippe mentali! E dovevo svegliarmi! Cazzo!
parte 21.1
Sweet home Alabama vibrava e
suonava dalla mia tasca. Dal display del telefonino lampeggiava il nome di
Carla. Lo guardai per un po’. L’ultima volta che ci avevo parlato era in
ospedale. E troppe cose erano successe. O sfuggite di mano. Non avevo voglia di
parlarle. Premetti il tasto rosso che mi negava all’interlocutore. Continuai la
conversazione con il mio amico Graziano Graz the Ganz e una delle sue tante amiche.
Bravo lui: non si innamorava mai. Di nuovo il telefonino, di nuovo i Lynyrd
Skynyrd con Sweet home Alabama, di nuovo quel nome che volevo scordare. Questa
volta premetti il tasto verde, avrei voluto dire solamente brutte parole.
“Pronto” dissi con voce scocciata.
“Almir era qui…” poi singhiozzi.
“Natasha la mia collega è morta…anzi no… l’hanno uccisa”
Poi un pianto.
“Carla spiegati, cos’è successo?”
Ancora pianti
“Carla, dimmi come stai ora, ti
hanno fatto di nuovo del male?”
“no… no… sto bene, ma Natasha…
l’hanno uccisa, ovvero è morta, ma sono convinta che sono stati loro.”
“Gli albanesi?”
“Sì”
“Dove sei Carla?”
“ A casa…”
“Ed Almir cosa ti ha fatto?”
“Niente… è stato gentile… anche se
la sua gentilezza era… alquanto minacciosa.”
“Vengo da te…”
Chiusi il telefonino.
Forse non aspettavo altro che
pronunciare quelle parole, o forse glielo dovevo. Probabilmente tutte e due le
cose.
Mi rivolsi a Graziano e gli dissi
che dovevo andare.
“ Problemi?”
“ Sì, e parecchi a quanto sembra.”
“ Posso aiutarti?”
“ Adesso no.”
“ Se ti servo, chiamami.”
Lo ringraziai. Anche se lo avrei
mandato al diavolo: in parte era colpa sua di tutto ciò, fu lui a portarmi per
la prima volta al Venezuelos.
parte 20.2
Il campanello di casa suonò due
volte.
Solo
il male imperterrito risorge ovunque.
Carla si chiese chi avrebbe potuto
essere.
Si diede una sistemata veloce ai
capelli e chiuse la zip della giacca della tuta di ciniglia che indossava.
Si avvicino alla porta e chiese chi
è.
Rispose una voce roca: “fiori”.
Guardò fuori attraverso lo
spioncino della porta. Vide solamente un sterminato mazzo di rose rosse.
Aprì la porta a quella che sembrava
una promessa d’amore.
Ma dietro ai fiori un sorriso già
conosciuto, uno di quelli che non puoi dimenticare, uno di quelli che ti fa accapponare
la pelle.
“Buongiorno principessa”.
Era Almir.
parte 20.1
Carla era appena tornata a casa
dall’ospedale, fisicamente era provata ma stava meglio, psicologicamente si
sentiva un relitto dimenticato in fondo al mare: aveva perso il suo bambino,
aveva perso Giovanni ed aveva appena perso la sua migliore amica.
No Nou, la venere nera del
Venezuelas, andata a trovarla in ospedale il giorno prima, le raccontò della
tragica morte di Natasha. Della quale non credeva nemmeno un po’ alle
motivazioni dedotte dalla polizia sull’omicidio. Avevano parlato di uno
rapporto sessuale o di uno stupro finito male. Natasha fu trovata mezza nuda, legata
e con un sacchetto di nylon chiuso sulla sua testa: morta per asfissia.
“Idioti” Esclamò parlando con la
tazza di tè che si era appena preparata.
“Come al solito non capiscono un
cazzo!” Continuò mescolando un cucchiaino di miele di acacia.
“Non è possibile, Natasha sapeva
sempre bene chi aveva diffronte, e non si sarebbe mai fatta legare da uno
sconosciuto… è tutta una montatura…”.
“Il club nasconde qualcosa e
Natasha ne era partecipe, ne sono certa…”
Continuò il suo monologo diretto al
mondo. O solamente alla tazza di tè: perché il mondo come finora l’aveva finora
conosciuto era finito. Definitivamente.
parte 19.3
Martini continuò a dare un’occhiata
alla scena del crimine. Tenendosi a distanza dalla vipera con le stellette. Rimuginò
che ne aveva abbastanza di vipere e che aveva già da tempo finito tutti gli
antidoti per compensare i morsi della sua ex moglie. Egli era un uomo troppo
dedito al lavoro, di quelli che trascurano la famiglia per finire il lavoro
bene ed a qualunque costo. Costo che spesso paga la consorte. Costo
che un giorno lei si rifiutò di onorare: una sera, rientrando tardissimo, dopo
un lungo pedinamento, Martini si ritrovò
al cospetto di tre valige pronte e tre parole lapidarie:
Ho
un altro.
La vice commissario ordinò qualcosa
ai suoi uomini, ed uno andò subito alla radio.
Arrivò dopo una ventina di minuti
la scientifica, e contemporaneamente una unità cinofila chiamata dalla Nobile.
Martini pensò che era troppo anche
per lui, cinofila e scientifica avrebbero messo poco tempo a litigare tra loro,
era giunto il tempo di scansarsi.
“Andiamo ragazzi, lasciamo il campo
ai professionisti”
parte 19.2
Al permesso di andarsene i tre
ciclisti montando in sella non persero tempo ad addentrarsi per un sentiero
carsico irto di cespugli ed alberi, cosicché in pochi secondi mountain bike ed
i loro cavalieri scomparvero.
Quasi contestualmente arrivò
un’altra volante, era la
Polizia di Frontiera, scese dall’auto la vice commissario
Maddalena Nobile.
“Tanto bella quanto spacca marroni”
disse sottovoce Martini alla vista della giovane donna; alta un metro e
settantacinque, longilinea e nonostante la divisa presentava un seno procace,
capelli neri lucidi che per l’occasione erano pettinati all’indietro e legati a
coda facendo così risaltare ancora di più i suoi occhi azzurri chiarissimi che
come l’espressione erano di ghiaccio.
“Ispettore, dove sono i ciclisti
che hanno trovato il corpo?”
“Dottoressa buongiorno” L’accento
sul buongiorno era voluto, Martini mal sopportava superiori strafottenti e
maleducati.
“Si trattavano di tre colleghi
della caserma dei pompieri, gli conosco e garantisco io per loro, sono
d’accordo che poi passeranno in caserma per firmare una dichiarazione.”
Avvicinandosi alla vettura e dandoci
un’occhiata dentro la Nobile
rispose con aria di sufficienza e senza guardarlo negli occhi:
“Non mi risulta che i pompieri
siano poliziotti ispettore.”
“In effetti no, ma come me e lei
rispondono al Ministero dell’Interno”
Martini non era uno che si perdeva
con le parole, e nemmeno con i fatti.
“Bene ispettore, facciamo così, le
tolgo l’incombenza, porti quanto prima al mio commissariato la dichiarazione
dei pompieri assieme alla sua. Prendiamo noi il caso.”
“Dottoressa, siamo arrivati per
primi sulla scena del crimine…”
“Ispettore, siamo a pochi metri dal
confine, la donna è straniera, ergo è nostra la giurisdizione.”
“Dottoressa…”
“Guardi che ho già parlato con il
suo comandante, si tranquillizzi...”
“…A proposito ispettore, spero che
nessuno abbia toccato nulla”
“Noi no, nemmeno i ciclisti… ma
gentilmente, come fa a sapere che la donna è straniera?”
“Ho fatto i compiti, ispettore, ho
fatto i compiti… La donna è una nostra conoscenza.”
“Agli ordini dottoressa, comunque
aspetteremo qui l’arrivo della scientifica, dal momento che l’abbiamo chiamata
noi.”
mercoledì 6 febbraio 2013
la metà alla meta.
Cerchiamo
la nostra metà anche per tutta la vita, è la meta del nostro viaggio sulla
terra.

Noi la cerchiamo, la dobbiamo trovare, ma deve essere quella metà lì, non una qualsiasi. Come due pezzi di un puzzle.
Altrimenti non saremo mai completi.
mercoledì 30 gennaio 2013
parte 19.1
I tre poliziotti si avvicinarono ai
ciclisti ancora esterrefatti per avere incontrato quella mattina una donna
orribilmente morta sulla loro spensierata via, lontano dalla strada, dai rumori
e dal caos.
“Sono l’ispettore Franco Martini
della squadra mobile di Opicina” Si qualifico l’agente più anziano.
Risposero i loro nomi quasi in coro
i tre ciclisti, infreddoliti dal stare fermi con addosso tutine adatte ad
atleti dai sforzi muscolari intensi e continuati, non sicuramente adatte a dei spettatori
di morte.
“Immagino che abbiate chiamato il
113 appena visto il cadavere, avete toccato qualcosa?”
“ Sì abbiamo chiamato subito e no,
non abbiamo toccato nulla” Rispose Giuseppe Collavini, quello che sembrava il
“capo gita”.
“ Siamo tre pompieri della caserma
di Opicina e senza questi caschi da ciclista e con la nostra divisa
probabilmente ci avrebbe già riconosciuti.” Disse togliendosi gli occhiali
specchiati che portava.
“Accidenti vero, ora la riconosco, se
il mondo è piccolo, Opicina è meno che piccolissima. Questo mi semplifica un
po’ le cose. Vi lascio procedere, passate più tardi presso il nostro
commissariato così ci firmate una breve dichiarazione.”
“Come vuole ispettore.”
“Non ci sono problemi dottore, le
auguro una migliore continuazione.”
“Credo sia difficile il contrario…
ma non impossibile… saluti.”
Giuseppe Collavini era il vice
comandante della caserma dei pompieri di Opicina e spesso i due si erano
trovati nello stesso posto per lo stesso motivo. Magari per estrarre una
persona da una macchina accartocciata dopo un incidente o solamente per tirare
giù da un tetto un rumoroso gatto in amore.
parte 18.0 secondo atto
SECONDO ATTO

Dopo dieci minuti arrivò una Bmw,
scese un uomo di media corporatura apparentemente distinto, portava un cappotto
grigio, un cappello grigio e guanti di pelle nera. Apri il bagagliaio ne
estrasse una grossa valigia rigida tipo Sansonite, Natasha scese dall’auto e
aprì il portellone della sua Mito, l’uomo ci infilò la valigia.
“Buongiorno Natasha”
“Buongiorno signor Igor”
“Tutto bene Natasha? Ti vedo
stanca…”
“No signor Igor, tutto bene”
Il tale signor Igor la guardò negli
occhi, sfoderando un sorriso rassicurante che ricordava un politico italiano
dalla faccia che sembra una maschera.
“Meglio così, d’altra parte sei la
puttana più ricca dell’Ucraina, di cosa ti puoi lamentare?”
Natasha non rispose, la verità fa male.
“Ah, l’altro ieri ho visto la tua
sorellina, sta crescendo bene, così come il suo seno, sta diventando proprio un
bel bocconcino.”
“Non la guardare neanche, stalle
lontano o…”
“Shhhh… fai la brava cagnetta… Ora
vai a fare quello che sai. E non preoccuparti. Non serve.”
Natasha sapeva che doveva obbedire: montò in macchina e
prese la strada del ritorno.
L’uomo la guardò impassibile
andarsene, poi estrasse dal suo cappotto un telefonino, fece velocemente un
numero, rispose una segreteria telefonica:
“la corriera ha esaurito la
benzina.”
Poi spense il cellulare estraendo
batteria e sim, li buttò in un cassonetto adiacente.
Natasha si stava asciugando le
lacrime mentre guidava spingendo sull’acceleratore e portando la macchina
attorno ai 180
chilometri l’ora. Incurante di quei limiti che fino a
poco fa stava perfettamente attenta, come se voleva essere fermata. Prese il
cellulare fece il numero della persona di cui era innamorata. Pensò ai consigli
dati appena qualche giorno prima alla sua collega Carla e pensò quanto sia
facile dispensare pillole di verità e quanto sia difficile ingoiarle.
Dall’altro capo una voce di donna.
“Pronto?”
“Tesoro, sono io…”
“Natasha… che ora è? Che cosa
succede?”
“Volevo sentire la tua voce, mi
manchi…”
“Sono le cinque meno dieci, non mi
chiami solo per sentire la mia voce…mi fai preoccupare.”
Devi
preoccuparti.
“Tutto bene se ti vedo… “
“Allora dammi il tempo di indossare
qualcosa. Fra trenta minuti al solito posticino nostro, ok?”
Non
perdere tempo a vestirti…
“Sì tesoro, va benissimo… ti amo…”
“ A fra poco zuccherino mio”
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