Nonostante la grandezza della nave,
era difficile che mi perdessi. I luoghi che un cuoco può frequentare sono
davvero pochi. Tutto è off limits. Dovevo sottostare alla regola che io avevo
chiamato delle tre C: Cucina, Cuccia e Cantina. Ovvero lavorare, dormire e se
avanzava un po’ di tempo c’era una saletta senza finestre (che io chiamavo
cantina) con qualche poltroncina dove
guardare tivù, ed una libreria di testi in inglese, con cui potevo cercare di
migliorare le lingua, mentre la maggior parte dei colleghi ingurgitava birre e
vino di dubbia qualità.

Un paio di stagioni, e la mia
abilità ai fornelli mi permisero di diventare secondo chef. E di potermi
muovere senza restrizioni per tutta la nave. Avevo tempo per abbronzarmi al sole dei
caraibi ed imparare l’inglese, conversando con donne sole… inondate da raggi di
sole. Inoltre potevo frequentare la piccola palestra degli ufficiali. A dire la
verità quest’ultima era una cosa che mi ero guadagnato da me: il comandante
della nave, era una buona forchetta ed apprezzava davvero molto i miei piatti.
E ciò che preparavo solo per lui ed i suoi ospiti. O meglio le sue personali ospiti…
Questo mi portò alcuni piccoli
privilegi, tra cui appunto la palestra. Nemmeno il primo chef ne aveva accesso.
Mi guardavo bene dal metterlo al corrente. Sebbene avesse interessi diversi lo
avrei ferito nella sua dignità professionale. E ferito nell’amicizia che si era
creata tra noi due.
Per contratto, dovevo presenziare
alle numerose cene di gala che si tenevano a bordo, in parte per completare le
pietanze sotto gli occhi dei clienti, magari con vistose flambate, in parte per
controllarne il gradimento.
Il compito era affidato a me, in
quanto il primo cuoco, come responsabile ultimo, ufficialmente non poteva
uscire dalla cucina, di fatto era evidente che la sua età prossima alla
pensione ed il suo naso da troppo tempo irrorato dal Rhum giamaicano, non
davano certamente lustro al galà. E nemmeno alla società armatrice. Al
contrario suo, devo dire, che io facevo la mia bella figura, tenendo alta la bandiera. Quella
della compagnia, ma anche e sopratutto quella mia.
Uscendo per verificare il grado di
soddisfazione dei clienti più volte mi capitava di ricevere delle mance. Quelle
cospicue mi venivano infilate fino in fondo la tasca dei miei pantaloni
d’ordinanza a piccoli scacchi bianchi e neri, accompagnate da un bigliettino
che indicava il numero della stanza ed un ora. Erano prevalentemente ricche quarantenni americane. A volte
viaggiavano da sole, a volte con un amica, a volte erano accompagnate da un
marito: così intento a perdere piccole fortune al Black Jack ai tavoli del
casinò, che non si accorgeva che la moglie annoiata lo tradiva.
Con un cuoco. O un mercenario.
Nessun commento:
Posta un commento