martedì 7 agosto 2012

parte 6.2


Nonostante la grandezza della nave, era difficile che mi perdessi. I luoghi che un cuoco può frequentare sono davvero pochi. Tutto è off limits. Dovevo sottostare alla regola che io avevo chiamato delle tre C: Cucina, Cuccia e Cantina. Ovvero lavorare, dormire e se avanzava un po’ di tempo c’era una saletta senza finestre (che io chiamavo cantina)  con qualche poltroncina dove guardare tivù, ed una libreria di testi in inglese, con cui potevo cercare di migliorare le lingua, mentre la maggior parte dei colleghi ingurgitava birre e vino di dubbia qualità.
La paga era buona e quando tornavo a casa, mi permetteva di godermi degnamente i due mesi di pausa. E di acquistare un monolocale.
Un paio di stagioni, e la mia abilità ai fornelli mi permisero di diventare secondo chef. E di potermi muovere senza restrizioni per tutta la nave. Avevo tempo per abbronzarmi al sole dei caraibi ed imparare l’inglese, conversando con donne sole… inondate da raggi di sole. Inoltre potevo frequentare la piccola palestra degli ufficiali. A dire la verità quest’ultima era una cosa che mi ero guadagnato da me: il comandante della nave, era una buona forchetta ed apprezzava davvero molto i miei piatti. E ciò che preparavo solo per lui ed i suoi ospiti. O meglio le sue personali ospiti…
Questo mi portò alcuni piccoli privilegi, tra cui appunto la palestra. Nemmeno il primo chef ne aveva accesso. Mi guardavo bene dal metterlo al corrente. Sebbene avesse interessi diversi lo avrei ferito nella sua dignità professionale. E ferito nell’amicizia che si era creata tra noi due.
Per contratto, dovevo presenziare alle numerose cene di gala che si tenevano a bordo, in parte per completare le pietanze sotto gli occhi dei clienti, magari con vistose flambate, in parte per controllarne il gradimento.
Il compito era affidato a me, in quanto il primo cuoco, come responsabile ultimo, ufficialmente non poteva uscire dalla cucina, di fatto era evidente che la sua età prossima alla pensione ed il suo naso da troppo tempo irrorato dal Rhum giamaicano, non davano certamente lustro al galà. E nemmeno alla società armatrice. Al contrario suo, devo dire, che io facevo la mia bella figura, tenendo alta la bandiera. Quella della compagnia, ma anche e sopratutto quella mia. 
Uscendo per verificare il grado di soddisfazione dei clienti più volte mi capitava di ricevere delle mance. Quelle cospicue mi venivano infilate fino in fondo la tasca dei miei pantaloni d’ordinanza a piccoli scacchi bianchi e neri, accompagnate da un bigliettino che indicava il numero della stanza ed un ora. Erano prevalentemente  ricche quarantenni americane. A volte viaggiavano da sole, a volte con un amica, a volte erano accompagnate da un marito: così intento a perdere piccole fortune al Black Jack ai tavoli del casinò, che non si accorgeva che la moglie annoiata lo tradiva.
Con un cuoco. O un mercenario.

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